23 aprile 2009

Lettura biblica: Gv 14,1-11a

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“Non sia turbato il vostro cuore”.
Da cosa è turbato il cuore dei discepoli?
Dalla gioia del tempo pasquale dobbiamo fare un salto indietro, tornare a quel giovedì in cui Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1): così inizia il racconto giovanneo del “testamento” di Gesù, in quell’ultima cena in cui il Maestro dà due insegnamenti fondamentali, e inscindibili l’uno dall’altro: la lavanda dei piedi e il comandamento dell’amore, come a dire che il servizio è simbolo dell’amore reciproco, e l’amore reciproco è fatto di umile servizio.
Ma quella sera prima della festa di Pasqua è per Gesù anche la sera dell’amarezza, per la coscienza del tradimento di Giuda e della pavidità di Pietro, che lo rinnegherà; è anche la sera del commiato, non definitivo, ma certo doloroso, dai suoi: Gesù sa che dove va lui per il momento né i Giudei, né i suoi, né Pietro possono seguirlo. È un Gesù turbato nello spirito (Gv 13,21) che sente il turbamento degli apostoli per le parole dure, e incomprensibili, con cui preanuncia loro la sua morte e la sua risurrezione.
“Non sia turbato il vostro cuore”.
Che bello, un Dio che si china sui nostri cuori, che si preoccupa dei nostri turbamenti! Anche oggi, anche nel “tempo della chiesa” in cui viviamo l’attesa del ritorno di Cristo, incerti sulla sua presenza: dalla teologia dopo Auschwitz  alle piccole bare bianche in fila all’Aquila, ci chiediamo: “Signore, dove vai?” (Gv 14,5); “Dove sei?”.
Nel prosieguo del capitolo 14 del vangelo di Giovanni Gesù promette un altro Consolatore: lo Spirito di Verità, grazie al quale non siamo orfani; nel nostro passo, ci consola egli stesso: “Abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!”: non è un precetto da Decalogo, è la carezza di un genitore al figlio spaventato: “Non sia turbato il vostro cuore”.
E a dirlo è quello stesso Gesù, vero uomo, che ha sperimentato il turbamento, non solo poco prima, predicendo il tradimento di Giuda, ma già in Gv 11,33, quando una sconsolata Maria gli rimprovera l’assenza che non ha impedito la morte del fratello Lazzaro, l’amato amico del Maestro: troviamo lì un Gesù turbato, commosso fino alle lacrime; c’è del buono in questo turbamento: è segno di umanità, di compassione, di dolore per un distacco.
È con questo cuore profondamente umano che Gesù consola gli Undici, che nemmeno capiscono la gravità dell’ora, al punto da fare domande “sbagliate”, scentrate, come spesso le nostre: “Come possiamo sapere la via?”; “Mostraci il padre!”.
E Gesù lì, a cercare di spazializzare, di temporalizzare i suoi pensieri, che non sono i nostri (cfr Is 55,8), così legati al dove, al quando! Deve dire “verità, vita eterna”, e traduce dimore nella casa del Padre. Nella logica terrena, non si scappa: per esserci, devi dire chi sei, da dove vieni: si vedano le domande pressanti dei Giudei al cieco nato (Gv 9), dal quale vogliono sapere – anzi, non vogliono sapere! – chi sia Gesù: “Dov’è costui?”; “Tu che dici di lui?”; “Non sappiamo di dove sia!”…
Da dove? Per dove?
Gesù è trasparente, nel definirsi: dal Padre, al Padre. Ma non è capito.
C’è tutto un gioco di movimenti, nel vangelo di Giovanni: “Venite e vedrete!” – dice Gesù ai due discepoli di Giovanni il Battista (Gv 1,39); poi, allo stesso Filippo, ingiunge: “Seguimi!” (Gv 1,43); e Filippo girerà l’invito, suggerendo a Natanaele (Gv 1,46): “Vieni a vedere!”. Così anche la donna samaritana, sconvolta dalle “profezie” di Gesù, al pozzo di Giacobbe, lascia la brocca, il bene più prezioso, e corre in città, ad annunciare: “Venite a vedere!” (Gv 4,29). 
E ancora, dopo la risurrezione, Gesù invia la Maddalena (Gv 20,17): “Va’ dai miei fratelli e di’ loro…”; poi invita i discepoli in riva al mare di Tiberiade (Gv 21,12): “Venite e fare colazione!”, e a Pietro ordina (Gv 21,19): “Seguimi!”.
C’è movimento: chi incontra Dio, tramite Gesù, non può star fermo: è messo in moto, e diventa egli stesso motore di altri – il giorno al giorno ne affida il messaggio, la notte alla notte ne trasmette notizia (Sal 19,3)!
Ma per rendere possibile questo, è necessario un momento di inazione, di staticità, di attesa: è necessario che Gesù affronti, da solo, la morte, per riconsegnare a tutti vita e verità; mai però come statica conquista: significativo il primo elemento della triplice autodefinizione di Gesù, che illumina gli altri due: “Io sono – per chi crede in me – la via”, cioè verità in fieri, vita eterna in fieri: contro ogni tentazione di appropriazione della verità e della vita eterna, che non ci appartengono, non sono già raggiunte.
E il Cristo-via è anche un’immagine che ci riempie di fiducia: già YHWH nel roveto ardente si era definito (Es 3,14) non tanto Colui che è, ma (l’indicazione è di Paolo De Benedetti) Colui che c’è: un Dio-con-noi, con l’uomo, per l’uomo. Ora, nel Figlio, ci è mostrato il volto più fraterno del Padre: il Signore è qua, lungo le nostre vie, come su quella di Emmaus, anzi, è lui stesso la via, come prima (Gv 10,7) si era definito porta dell’ovile.
Viceversa, allora, se giriamo la definizione, le nostre strade sono verità e vita: le nostre vie tortuose e polverose, lastricate dai nostri smarrimenti, dall’incertezza, dalla stanchezza, sono abitate dal Figlio, sono già una parte di quella dimora che ci attende in abbondanza: se no, Gesù ce l’avrebbe detto (cfr. Gv 14,2)!
Il Figlio è già nel Padre, e il Padre nel Figlio, così come noi siamo già parzialmente con lui, se dimoriamo in lui (Gv 15,4-10).
Ecco allora cos’è la pace che Gesù lascia ai suoi (Gv 14,27), che poi conferma, apparendo loro: è questo sentirsi non ancora arrivati, ma già residenti; rivalutiamo allora i mezzi, non più secondari rispetto al fine, verifichiamo come ci comportiamo, lungo la via che ci porta al Padre, senza pretendere di “vederlo” se non nel fratello da amare e servire, secondo l’insegnamento di Gesù: Se ci amiamo scambievolmente Dio dimora in noi e l’amore di lui giunge in noi a perfezione (1Gv 4,12).