Introduzione al documento del CEC "Gloria a Dio e pace sulla terra"

Convocazione internazionale ecumenica sulla pace  – Kingston, Giamaica, 17-25 maggio 2011

Si tratta del “documento preparatorio per una Dichiarazione ecumenica sulla pace giusta”, approntato dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC = WCC in sigla inglese) in vista della Convocazione internazionale ecumenica sulla pace (JEPC in sigla inglese), che si terrà a Kingston, in Giamaica, dal 17 al 25 maggio 2011.
Si tratta dunque di una traccia, che il Cipax (Centro interconfessionale per la pace – Roma) ha pubblicato in una propria traduzione autorizzata dal testo inglese, per rendere possibile al maggior numero di persone di averne visione ed eventualemnte modificarla: è infatti possibile inviare alla sede ginevrina del CEC riflessioni e proposte, entro il 31 dicembre 2009.
Il testo è organizzato in 117 paragrafi, suddivisi in 3 capitoli, con una Premessa, una Meditazione introduttiva, un Preambolo e una Conclusione.

Premessa  

Vengono ripercorse le tappe che hanno portato alla stesura di questo documento:
– 1975, Nairobi: V Assemblea generale del CEC: inizio di una riflessione sui problemi ecologici: introduzione del concetto di sostenibilità;
– 1983, Vancouver (Canada): VI Assemblea generale del CEC: sottoscrizione dell’avvio di un “Processo conciliare di mutuo impegno per giustizia, pace e integrità del creato”;
– 1990, Seoul: Convocazione mondiale su “giustizia, pace, salvaguardia del creato”: prospettive non unanimi, ma affermazioni e suggerimenti chiave;
– 1998, Harare (Zimbabwe): VIII Assemblea generale del CEC: gli anni 2001-2010 verranno dedicati al “Decennio per superare la violenza”;
– 2006, Porto Alegre (Brasile): il “Decennio” si concluderà nel 2011 con la IEPC;
– 2007: il Comitato centrale del CEC sceglie come sede dell’IEPC Kingston (Giamaica); coordinatore dei lavori preparatori: Geiko Müller-Fahrenholz, teologo tedesco che stabilisce due priorità: 1) preparazione di una Dichiarazione, la cui adozione rappresenterà il momento decisivo della JEPC; 2) invio di “lettere viventi”, cioè delegazioni, nelle chiese e nei paesi particolarmente tribolati (Territori palestinesi occupati, Bolivia, Repubblica democratica del Congo);
– 2008: nuovo coordinatore dei lavori: Nan Braunschweiger;
– 2009 (primavera): conclusione della stesura del documento-base.

Meditazione introduttiva
Il titolo della Convocazione viene da Lc 2,10-14.
Si noti che la Revised Standard Version, da cui sono tratte le citazioni bibliche nell’originale inglese del Documento, recita ancora: “… e pace in terra agli uomini di buona volontà”, secondo la Vulgata geronimiana, mentre i più recenti studi esegetici, rifacendoci al testo biblico originale greco, preferiscono la lezione: “… e pace in terra agli uomini, che Egli ama”.
Perché questo titolo? 
Si dichiara che il Documento è stato scritto in spirito di pentimento, per la consapevolezza della violenza in cui il cristianesimo è stato coinvolto lungo tutta la sua storia.
Nel passo evangelico si evidenzia come Dio sia entrato dal basso nel circolo vizioso della violenza e dell’avidità (§ 4), come l’oikoumene dell’impero romano sia la realtà violenta a fronte della quale è posta l’oikoumene del Principe di pace (Is 9,5) (§ 5).
Il canto degli angeli pone l’accento sulla terra come luogo della pace: dunque, la salvezza degli uomini non può essere separata dal benessere del creato (§ 6).
Le prime parole degli angeli: “Non temete!”, che verranno ripetute dal Risorto (Mt 28,10) ai suoi, sono rivolte anche a noi, persone spaventate in tempi spaventosi, che possiamo trovare conforto e incoraggiamento nella pace di Gesù Cristo (§ 7).
Preambolo
Testimoniare la pace in un mondo violento
La fine del Decennio per superare la violenza è un kairòs della grazia, che richiede di fare memoria della storia della violenza per contribuire, come chiese, a vincerla (§ 8).
Gli eventi della storia: chiamati a costruire la pace
Dio parla anche attraverso gli eventi della storia, chiedendo di pentirci e di cercare una più profonda conversione a Cristo.

L’impegno alla pace è sollecitato dagli avvenimenti degli ultimi due decenni:
– 1989: caduta del muro di Berlino e fine della Guerra Fredda: finisce un quarantennio di repressione e di minaccia nucleare, che molti danni ha inflitto alla famiglia umana; sembra aprirsi un’era di pace, ma in realtà in Europa, in Asia e in Africa la violenza interna agli stati non fa che aumentare;
– 1992: • Anno ONU per i popoli indigeni: cinquecento anni di colonialismo e di genocidio hanno   causato ferite profonde in Australia, Nuova Zerlanda, Americhe;
• la Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo lancia un grido di allarme per la preoccupante crisi ecologica;
– 1994:  • Anno ONU per la Donna: violenza diffusa contro donne e bambini;
• fine dell’apartheid in Sud Africa: trionfo dell’azione nonviolenta su un regime violento;
• genocidio in Rwanda: poche settimane di follia omicida cancellano decenni di lavoro per   lo sviluppo;
– fine del XX secolo: risultati negativi della globalizzazione: smembramenti familiari causati dalle migrazioni, effetti della dislocazione economica, globalizzazione del crimine, esaltazione della violenza nei media (§ 9).

Le chiese rispondono: il Decennio per superare la violenza
Si ripercorrono le tappe del percorso del CEC contro violenza, ingiustizia e degrado ambientale (vd. Premessa).
Negli anni Novanta la nozione di “guerra giusta”, a lungo associata al cristianesimo, viene finalmente superata e sostituita da quella di “pace giusta” (§ 10).
Ci si consultò su vari aspetti della costruzione della pace: perdono, guarigione della memoria, responsabilità di dare protezione, pace con il creato (§ 11).
Avvicinandosi l’anno dell’IEPC, è tempo di valutazioni: di fronte a minacce per l’esistenza umana come armi nucleari, divario ricchi/poveri, crisi alimentare, degrado ambientale, le chiese sono sollecitate ad esercitare il loro ministero di servi e ambasciatori della pace e della riconciliazione di Dio (2 Cor 5,18-20): una pace di Dio con e per il creato onnicomprensiva e integrale, che tenga conto dell’inestricabile legame tra pace e integrità del creato (§ 12).

Capitolo 1
Il Dio della pace e la pace di Dio

Pronunciando “Gloria a Dio e pace sulla terra” le chiese si impegnano a rileggere le Scritture disposte al pentimento, consapevoli di quanto le proprie debolezze hanno macchiato la comprensione di Dio e della sua pace (§ 13).
Concetti biblici fondamentali sulla pace
Il concetto di shalom, presente nelle Scritture ebraiche, è molto ampio: significa “completezza, solidità, benessere, pace”, e comprende giustizia, misericordia, rettitudine, dirittura morale, compassione e verità. La pace è dunque il risultato della rettitudine e  dell’esercizio di verità e giustizia; è il luogo in cui Dio guida le nazioni a trasformare le spade in aratri (Mic 4,3; Is 2,4), dove “il vitello e il leone pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà” (Is 11,6) (§ 14).
Il termine ebraico shalom ha radici comuni all’arabo salaam, che significa “avere a sufficienza, equiparare”: i due sostantivi condividono dunque il significato di “essere senza difetti, sani e integri”. Shalom più in generale significa integrità e benessere, sicurezza, prosperità e libertà dalla discordia e dall’antagonismo politico: comprende dunque tanto la pace individuale quanto quella comunitaria, e viene meno quando malattia, ingiustizia, povertà, conflitto, violenza, guerra infliggono ferite al corpo e all’anima degli esseri umani, alla società e alla terra (§ 15).
Il concetto ebraico di shalom è inoltre legato a quello arabo di islam, “sottomissione a Dio”: tutta la pace è dunque di Dio, e l’interezza della vita umana comprende l’ubbidienza a un Dio giusto, misericordioso e virtuoso; la pace è allora il risultato della fedeltà a Dio (§ 16).
Nel Nuovo Testamento il significato ampio di shalom viene espresso con il termine greco eirene, con cui si indica la pace come dono di Dio, benedizione di Dio. Prosperità e benessere sono segni apparenti, ma non esclusivi, del favore di Dio, e sono da interpretare come il risultato del comandamento divino di essere giusti, misericordiosi e retti: in maniera molto diversa, dunque, dal “Vangelo della Proseprità” insegnato in alcune chiese (§ 17).
Nel Nuovo Testamento, è Gesù la fonte della pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” (Gv 14,27): è la pace che viene dal suo sangue sulla croce (Col 1,20). Tramite la sua morte, tutto il creato viene riunito e riconciliato con Dio (Ef 1,10; Col 1,16.19-20) (§ 18).

La Pace e l’oikos o la casa di Dio
Non può esistere altro luogo oltre questo mondo per gli sforzi dell’umanità nella costruzione della pace. Il mondo è l’oikos: la casa, di Dio e di tutti; i membri dell’oikos hanno dunque la responsabilità di lavorare per il bene di tutti. Nell’antica Grecia oikoumene significava il mondo intero come unità amministrativa; venne equiparato all’impero romano; per i cristiani significò invece la comunità della fede, la “chiesa del Dio vivente” (Ef 2,20; 1 Tm 3,5; 1 Pt 4,17). In un senso più largo, il Nuovo Testamento usa oikoumene per indicare la terra e tutti i suoi abitanti (Lc 2,10.4,5; At 17,30-31): la chiesa risulta così strettamente legata la mondo, visto che ogni essere umano è connesso con l’oikos della chiesa e con quello del mondo (§ 19).
Ognuno è chiamato, come costruttore della casa (oikodomos), a edificare e rafforzare l’oikoumene: un oikodomos è un costruttore di pace, che lavora per risanare la casa, smantellando la cultura dell’abuso e della violenza (§ 20).
La pace, che  sostiene la storia e la porta a compimento, è il dono di Dio all’umanità: dono della pienezza della vita, della sicurezza e della libertà (Ez 34,25-31). Il popolo di Dio deve essere suo strumento nella mediazione delle situazioni di conlitto e nell’incoraggiamento di afflitti e sofferenti, in un orizzonte escatologico che guarda al tempo nel quale “Dio sarà tutto in tutti” (1 Cor 15,28). Segue una preghiera di invocazione al Dio della pace (§ 21).
Il Dio della pace rivelato come Santissima Trinità
Nelle Scritture ebraiche il Dio della pace è un Dio della verità, della giustizia e della misericordia (Dt 32,4; Sal 145,17). Nel Nuovo Testamento, è il Dio che ha mandato sulla terra il Verbo e lo Spirito Santo: di qui l’interpretazione, da parte della chiesa primitiva, di Dio come Santissima Trinità, con la perichoresis, cioè l’eterna e dinamica interrelazione fra Padre, Figlio e Spirito Santo, che rivela l’unità del divino, pervade tutto e tiene insieme le diversità (§ 22).
La perichoresis divina rivela anche la natura del creato: un tutto intero con all’interno le sue diversità e l’energia che abbraccia tutto: le diversità rivelano in maniera sacramentale l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la presenza dello Spirito Santo (§ 23).
Le diversità all’interno della bellezza del creato riflettono dunque l’interrelazione (perichoresis) delle tre Persone che formano la Trinità: è tale relazione che conduce alla pace (§ 24).
L’oikos del mondo e della Chiesa trova allora il suo significato e il suo scopo nella perichoresis trinitaria: un abbraccio d’amore, pace e bellezza. Costruire la pace è la partecipazione umana alla danza eterna della perichoresis, così che l’oikos sia specchio dlela Trinità (§ 25).

Ne consegue che:
– la natura trinitaria di Dio consegna al creato un impegno alla pienezza e alla comunione nelle diversità.
– Dio è Dio di pace e giustizia, di misericordia e di verità, le quali vivono insieme in un profondo abbraccio (Sal 85,10-14).
– La pace è l’abbraccio di tutto il creato: le nostre relazioni con Dio, con il prossimo e con la terra sono legami d’amore.
– Il rifiuto delle creature di partecipare a questo abbraccio provoca l’ira di Dio: una rabbia scaturita dal suo desiderio di riportare i duri di cuore alla giustizia e all’amore.
– Il Verbo è entrato nel nostro mondo, abbraccia la nostra vulnerabilità e riconcilia tutto in sé (Col 1,19-20).
– Cristo è la nostra pace (Ef 2,14), Colui che, nella propria carne, ci ha uniti gli uni con gli altri e con lui.
– Creati a immagine di Dio, abbiamo la potenzialità di portare la pace e superare la violenza.
– Le due espressioni “Gloria a Dio” e “Pace sulla terra” sono tenute insieme in forma di croce: il braccio verticale segna la riconciliazione con Dio, quello orizzontale con tutto il creato. La gloria a Dio (doxa) si rivela solo nella costruzione della pace (praxis) (§ 26).

Gli esseri umani, abitanti della terra creati a immagine di Dio
Dal racconto della Genesi crediamo che ogni essere umano è creato dal fango (Gn 2,7) a immagine di Dio (Gn 1,26-27): tutti gli esseri umani sono dunque creati a immagine di Dio, ma allo stesso tempo vivono sulla terra, anzi sono stati gli ultimi abitanti della terra a essere creati. Sono quindi stati creati per costruire un mondo giusto e pacifico, a somiglianza di Dio, la cui opera è la pace, in stretta solidarietà con la terra e tutto il creato (§ 27).
Il mistero del male e le perversità del cuore umano: i volti della violenza
Il peccato è la tendenza umana ad allontanarsi da Dio; il male, nelle sue varie declinazioni, è segno di un’umanità che ha perso la sua immagine originale e distorto la sua vocazione iniziale (§ 28).

La violenza e la realtà della trasgressione
La violenza è una violazione dei limiti, una trasgressione dello spazio che ogni essere vivente richiede per lo spiegamento e l’appagamento della sua ragione di vivere. È la violazione dell’integrità e dell’armonia delle innumerevoli relazioni che sostengono tutto il creato (§ 29).
La violenza conosce molteplici espressioni, a livello personale e a livello di società e nazioni (§ 30), ma si esprime anche nella violazione delle diversità del mondo naturale e nel suo abuso (§ 31).
C’è una violenza “strutturale” o “sistemica”, che si sviluppa dentro la globalizzazione economica, l’etnocentrismo e l’esclusivismo culturale, con lo sradicamento delle culturte indigene, l’accumulo del debito, la destabilizzazione delle autonomie nazionali e regionali, la militarizzazione delle economie mondiali e la diffusione di prodotti d’intrattenimeno violenti e pornografici (§ 32).
C’è poi una violenza “quotidiana”, legata agli abusi di potere diventati così consueti da venir considerati naturali e inevitabili (§ 33).

I nostri abusi di potere
Il potere è la forza, l’energia con la quale ogni organismo afferma e rivendica la sua esistenza. Si trasforma in violenza quando oltrepassa e calpesta l’ambito di potere di altre creature, oppure quando è negata la necessaria condivisione del potere (§ 34).
Si può distinguere fra un potere “sopra”, che diventa abuso quando si trasforma in oppressione, umiliazione e omicidio (§ 35); un potere “con”, sconfinante nella violenza se diventa dominio o allontanamento sotto forma di amore negato (§ 36); e un potere “per”, che diventa violento se si creano strutture di dipendenza e repressione (§ 37).
Ad ogni livello – personale, sociale, economico, politico – il potere “sopra”, “con” e “per” può avere un significato utile e persino redentivo, ma può anche esercitare la sua forza dannosa e deviante (§ 38).

Le forme e le strutture dell’inimicizia
Un altro approccio alle diverse realtà della violenza si ha tramite la considerazione delle strutture dell’inimicizia, che pervadono la nostra vita: “pareti divisorie di ostilità” (Ef 2,14), nelle quali si rivela come il tessuto della società sia intrecciato di conflitti d’interesse e di divisioni profonde, che trovano origine negli squilibri di potere. Nessun spirito è immune da quest’inimicizia: siamo tutti sulla lista dei nemici di qualcuno (§ 39).
Anche la terra può essere trattata come un nemico: l’accumularsi degli abusi del potere umano ha messo in grave pericolo l’integrità della natura, i cui tesori sono stati trattati come il bottino di una guerra infinita (§ 40).
A volte, le strutture dell’amicizia sono invisibili, o preferiamo che rimangano tali, per non riconoscere che le persone di una certa parte della società vivono in un mondo diverso da quello dell’altra. L’indifferenza verso l’inquinamento, verso l’assoldamento e la prostituzione minorili, verso le guerre dimenticate dai media è una struttura subdola di inimicizia (§ 41).
Ci può essere un’etica che superi queste molteplici inimicizie? Sul modello di Gesù, dovremmo sentirci obbligati ad amare il nemico, come unico modo per raggiungere shalom e un nuovo creato (§ 42).
In Gesù scopriamo la testimonianza messianica: “Egli è la nostra pace, colui che ha fatto dei due [ebrei e gentili] uno” (Ef 2,14); alla luce di questa alternativa liberatrice, da una parte apprezziamo gli sforzi dei costruttori di pace nella quotidianità e nell’umiltà, dall’altra ci preoccupiamo per la catastrofe ambientale incombente, per le guerre di accesso alle risorse, per la fame dilagante, per la minaccia di un disastro nucleare totale (§ 43).
Come si comportano le chiese davanti a queste emergenze? Alcune le interpretano in modo apocalittico, come segnale della fine dei tempi, e ritengono di non dovere né potere far niente per risolvere tali “tribolazioni”, che farebbero parte del disegno divino per la fine della storia del mondo: la speranza dovrebbe essere tutta riposta nel Cristo che arriverà e nel nuovo creato che sostituirà quello vecchio (§ 44).
Il presente documento sottolinea invece il legame indivisibile fra creato e salvezza: la pace di Dio non può essere separata dalla pace sulla terra e con la terra; per questo il cristiano è chiamato a prendere la parte dei poveri e dei senza potere, a testimoniare la verità, a farsi comunità, agendo per la guarigione e la salvezza (§ 45).

Domanda:
Siete d’accordo con questa presentazione delle fonti bibliche, con le conlusioni trinitarie e con le riflessioni sul peccato umano e la natura della violenza?

Capitolo 2

Nel nome di Cristo: le chiese come comunità impegnate nella costruzione della pace

Il capitolo si apre con una straordinaria preghiera sul perdono, scritta da un anonimo prigioniero nel campo di concentramento vicino a Ravensbruck e trovata accanto al cadavere di un bimbo.

La natura e la missione della Chiesa
La Commissione Fede e Costituzione del CEC definisce la Chiesa “comunione di quelli che, tramite il loro incontro con il Verbo, instaurano un rapporto vivente con Dio, che parla loro aspettandosi una risposta fiduciosa”: è la “comunione dei fedeli”.
La Chiesa è un dono di Dio, che ha mandato tra noi il Figlio e lo Spirito: è dunque realtà divina. Ma la Chiesa è composta di persone che hanno peccato e sono state redente: è dunque realtà umana. Nel Nuovo Testamento molte immagini e metafore parlano di una Chiesa insieme terrena e trascendente: la Chiesa come “popolo di Dio”, “popolo in cammino” attraverso la storia, verso la consumazione della storia di tutte le cose in Cristo; la Chiesa come “corpo di Cristo”, presenza vivente del Verbo tra noi; come “tempio dello Spirito”, nel quale la santità di Dio vive sulla terra; e come “comunione”, che rispecchia le Persone della Trinità (§ 46).
Creazione del Verbo e dello Spirito, la Chiesa partecipa alla loro missione di portare tutto il creato alla comunione con il Dio trinitario. Secondo il documento della Commissione Fede e Costituzione del CEC “la Chiesa esiste […] per servire la riconciliazione dell’umanità” (§ 47).
La Chiesa è dunque “segno e strumento dell’intenzione e del progetto di Dio per il mondo intero”: è segno profetico che rinvia alla missio Dei, ed è strumento di Dio, secondo il ministero di riconciliazione affidatole da Cristo (2 Cor 5,18). La Chiesa è allo stesso tempo mysterion, sacramento: sacramento del mondo nel sostenere la speranza escatologica in un disegno divino riconciliatore, e sacramento della presenza divina nel mondo (§ 48).
La Chiesa è anche casa (oikos) di Dio, e specchio dei rapporti armoniosi fra le Persone trinitarie (vd. cap. 1). I cristiani riconoscono la loro lontananza dalla realizzazione della comunione fra di loro e con la Trinità, e in spirito di pentimento dovrebbero cercare nuovamente di avvicinarsi al destino cui sono chiamati (§ 49).

La vocazione e il ministero della costruzione della pace nelle chiese
Le chiese sono chiamate, in quanto segno, strumento e sacramento dell’intenzione e del progetto di Dio, ad essere costruttrici di pace (§ 50).
Ma le chiese hanno spesso scambiato la loro partecipazione alla missio Dei della riconciliazione con un rigido programma ecclesiocentrico di aggressivo proselitismo e con l’arrogante distruzione di culture: occorre sostituire all’arroganza il pentimento e una nuova attenzione a quello che Dio fa nel mondo (§ 51).

La Chiesa come sacramento di pace
La Chiesa è essenzialmente sacramento: sacramento della Trinità, cioè del Creatore che invia il Verbo e lo Spirito nel mondo, e del Dio che riconcilia il mondo tramite l’azione di Cristo e dello Spirito. Questo elemento fondamentale è rappresentato e ri-presentato nella liturgia, soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia. La liturgia è memoria di quanto Dio ha già fatto per noi, e annuncio della speranza escatologica; è un atto rituale che ci rende partecipi della vita trinitaria, inizio e fine della pace vera. Nella divina liturgia ortodossa la pace è nominata ed estesa ripetutamente a tutti; in molte chiese lo scambio della pace è parte integrante del rito; l’ingiunzione di procedere dall’Eucaristia nella pace di Dio è un mandato a portare la pace di Dio nel mondo. Portare avanti la pace di Dio nel mondo è quello che i teologi ortodossi chiamano “la liturgia dopo la liturgia”, e i cattolici romani “la liturgia del mondo”: tali espressioni ci ricordano che la liturgia e il mondo non sono entità separate, ma sono emtrambe racchiuse nel disegno di Dio per il creato (§ 52).
La liturgia è dunque origine e fonte della pace, che è un mistero nei due sensi del termine: è qualcosa che va oltre la nostra comprensione (Fil 4,7), ed è mysterion (sacramento) che ci porta alla trasformazione e all’illuminazione. La Chiesa vive della pace, e ha il mandato di trasmetterla al mondo (§ 53).
La natura sacramentale della pace, che emana dalla perichoresis trinitaria, deve essere vissuta nella vita di ogni individuo, nelle famiglie e nelle comunità (§ 54).
La Chiesa può essere segno profetico e strumento della pace di Dio nel mondo solo in quanto sacramento della pace di Dio (§ 55).

Le chiese come segno profetico nella costruzione della pace
Come segno profetico, le chiese sono chiamate ad opporsi all’ingiustizia e a difendere la pace, partecipando alla missio Dei di migliorare il mondo e portarlo verso la “nuova creazione” dei riconciliati (2 Cor 5,17). Le chiese tradizionalmente pacifiste hanno un ruolo particolarmente importante: sul modello di Gesù, che affrontò la propria morte violenta con la nonviolenza, mostrano come sia possibile rispondere a un mondo pieno di violenza con la nonviolenza (§ 56).
Essere segno profetico della pace in un mondo violento richiede impegno, coraggio e coerenza: non sempre le chiese ne sono state capaci, anzi a volte si sono alleate con politiche violente, fino al punto di legittimarle. Quando le chiese hanno abbracciato la bandiera del nazionalismo e dell’etnicità, quando hanno benedetto l’oppressione e lo sterminio dei “nemici”, quando hanno adottato fedi apocalittiche violente, quando hanno usato indifferenza di fronte alla sofferenza e all’ingiustizia, per difendere i propri privilegi o per non essere coinvolte, hanno tradito la loro vocazione; la loro credibilità come segni autentici di pace è minata dalla discordia sui concetti centrali dell’identità delle chiese stesse, ad es. la testimonianza dei sacramenti. Di tutti questi tradimenti devono pentirsi, per diventare degni veicoli del lavoro di Dio, e segno profetico per i peccatori. Sul modello di Gesù, il servizio (diakonia) delle chiese deve consistere nel disinteresse verso sé stesse, nella volontà di condividere l’insicurezza, nel fermo impegno verso poveri ed emarginati: solo così la loro testimonianza sarà credibile (§ 57).

Le chiese come strumenti della costruzione della pace
Le chiese sono chiamate ad essere strumenti di pace in maniera concreta: nella chiesa occidentale medievale la teoria della “guerra giusta” servì a contenere la violenza, così come la proclamazione della “pace di Dio” (tregua Dei) e la concezione dell’edificio della chiesa come “santuario” esente da violenza (§ 58).
Oggi la costruzione della pace passa per compiti specifici in situazioni di pre-conflitto, di conflitto e di dopo-conflitto (dove per “conflitto” si intende qui solo quello armato e violento: i conflitti sociali devono invece essere intesi come un invito a crescere in umanità e qualità di rapporti umani) (§ 59).
• Nella situazione di pre-conflitto costruire la pace significa prevenire il conflitto violento ed educare alla pace, disinnescando etnocentrismo, xenofobia e demonizzazione del forestiero, attraverso il controllo delle dicerie e della retorica infiammatoria dei mass media; occorre soprattutto sfatare lo stravolgimento ideologico degli insegnamenti cristiani e l’uso della fede cristiana per legittimare l’aggressione contro persone di fedi diverse (§ 60).
L’educazione alla pace è una formazione spirituale del carattere, a lungo termine.

Promuovere la pace significa:
– crescere nella comprensione biblica della pace
– conoscere le tentazioni che portano le persone lontano dalla pace, verso la violenza
– analizzare i racconti attraverso cui descriviamo a noi stessi i nostri potenziali nemici
– conoscere come impegnarci nelle pratiche di pace (soprattutto per bambini e adolescenti)
– imparare a prenderci cura della terra come metodo per coltivare la pace
– fare della preghiera per la pace parte integrante del nostro culto
Educare alla pace significa sviluppare riflessi comportamentali in modo che, di fronte alla  provocazione, si reagisca in modo nonviolento (§ 61).
L’educazione alla pace deve essere parte dell’educazione religiosa nelle chiese, a tutti i livelli: tutti i membri della Chiesa devono chiedersi se le scelte che operano, le loro azioni e i loro stili di vita li rendano o no servi della pace (§ 62).

• Nella situazione di conflitto, costruire la pace significa proteggere e mediare. La responsabilità di proteggere, ben nota da sempre alle donne, sta incominciando solo ora ad essere valorizzata. Reti di comunità possono diventare rifugi sicuri per offrire protezione dalla violenza, non solo armata o urbana, ma anche domestica. Le chiese che sponsorizzano organizzazioni umanitarie devono essere pronte a operare pubblicamente per proteggere chi è sposto al rischio o all’abuso (§ 63).
La mediazione nei conflitti armati è compito importante e delicato, che può toccare alle chiese: è necessario conservare un equilibrio fra il guadagnare la fiducia dei diversi partiti e il mantenere una riconosciuta neutralità. Nei conflitti civili, screditate le altre istituzioni, le chiese possono essere l’ultima istituzione credibile per poter parlare per conto della gente (§ 64).
• Nella situazione di dopo-conflitto il compito delle chiese per la costruzione della pace consiste nel: dire la verità, cercare le varie forme della giustizia, aiutare a raggiungere il perdono, costruire una riconciliazione duratura (§ 65).
1) Il racconto della verità è importante per due motivi: permette la riabilitazione di quanti furono qualificati come nemici da uno stato potente; consente alle vittime (o ai superstiti) di raccontare le loro storie e testimoniare il dolore subìto; può anche aiutare a fondare un nuovo stato di responsabilità e trasparenza, dopo un regime di oppressione, arbitrarietà e segretezza: una nuova società si fonda solo sulla verità, che significa veracità ma anche (biblicamente) credibilità e affidabilità (§ 66).
Le chiese però devono prima essere in grado di raccontare la verità su sé stesse (un esempio è dato dalla disciplina di Bonhoeffer nella chiesa confessante di Finkenwalde): se vogliono aiutare gli altri a dire la verità, le chiese devono praticare una disciplina spirituale dentro e su sé stesse (§ 67).
2) La seconda tappa consiste nella ricerca della giustizia; distinguiamo una giustizia riparatrice da una giustizia strutturale (c’è poi un terzo tipo di giustizia: quella punitiva o retributiva, che si occupa dei malfattori e dovrebbe essere prerogativa di uno stato di diritto). La giustizia riparatrice consiste nella riabilitazione delle vittime, ed è espressione naturale dell’opera di Dio, che si china sugli emarginati (§ 68).
La giustizia strutturale, tesa a cambiare le strutture della società che hanno contribuito all’ingiustizia e al conseguente conflitto, è necessaria perché il conflitto non si ripeta. Occorre scrivere nuove costituzioni, sviluppare le politiche dei partiti e dei governi e occuparsi dell’esecuzione di cambiamenti strutturali, in vista di una pace durevole (§ 69).
3) È poi necessario promuovere il perdono, a livello personale e sociale. Il perdono cristiano non è a buon mercato, non cancella il passato ma ricorda il passato in modo diverso. Le chiese, strumenti del perdono di Dio, possono accompagnare le persone verso il perdono, e fornire una struttura rituale pubblica dove può essere concesso il perdono, soprattutto sociale (§ 70).
Lungo la strada del perdono riveste un particolare significato la guarigione della memoria, tramite il ricordo del passato in modo diverso. Le chiese possono accompagnare le vittime nel trovare una via attraverso la sofferenza, guardando alle sofferenze di Cristo (§ 71).
4) Infine, le chiese possono contribuire al processo di pace aiutando a costruire riconciliazione: la riconciliazione è al tempo stesso processo e mèta. Mentre il perdono individuale mette a fuoco la restituzione dell’umanità alla vittima a immagine e somiglianza di Dio, la riconciliazione sociale potrebbe mettere a fuoco la guarigione della memoria sociale e la costruzione di un futuro comune. Quando la riconciliazione è raggiunta, si potrà considerarla dono della grazia di Dio entro il suo progetto di riappacificazione di tutto il creato (§ 72).
Come strumenti della pace di Dio, le chiese sono “vasi d’argilla”, non sempre all’altezza della loro vocazione: càpita spesso che si trovino complici nei conflitti, soprattutto in quelli interni; càpita che i loro capi tacciano contro l’ingiustizia o addirittura benedicano la violenza; càpita che membri di una chiesa agiscano come complici nascosti dell’oppressore, denunciando e perseguitando altri membri della stessa chiesa, schierati sul fronte opposto… Se non si sono collocate pienamete dalla parte dell’aggressione, alla fine del conflitto le chiese possono ancora avere un ruolo nel processo di riconciliazione, diventando modelli del pentimento, rispecchiando l’ambivalenza creata dal male e dalla violenza, accettando la punizione, incoraggiando alla tolleranza (§ 73).

Le pratiche spirituali della pace
Per essere operatori della pace di Dio, occorre prendere a modello la pace di Gesù, che consiste nello svuotare l’io, nell’abbracciare la vulnerabilità, nel camminare con gli afflitti. L’Incarnazione e l’invio dello Spirito sono un’estensione dell’abbraccio della pericoresi della Trinità, che accoglie dentro di sé quelli che sono stati feriti dal peccato, dall’oppressione e dall’ingiustizia. La costruzione della pace richiede dunque di entrare sempre più profondamente in comunione con il Dio trinitario, riconoscendo nel nostro mondo l’opera di Dio (§ 74).

Formarsi in Cristo richiede pratiche e discipline spirituali per incorporare in noi la pace:
– recitare preghiere d’intercessione
– cercare e concedere perdono
– lavare i piedi degli altri
– impegnarsi in periodi di digiuno, per ripensare i nostri rapporti con gli altri e con la terra
– compiere costanti e intensi atti di cura verso gli altri
– compiere costanti e intensi atti di cura verso la terra
– partecipare ad attività di culto collettivo, per essere nutriti dalla Parola e dall’Eucaristia (§ 75).

La pace non è solo una visione della vita: è anche un modo di vivere, che poggia su una spiritualità. Spiritualità vuol dire approfondire l’atteggiamento mentale e impegnarsi di più in quelle pratiche spirituali, soprattutto collettive, che ci portano sempre più profondamente nel mistero di Cristo (§ 76).
Un compito importante per questa spiritualità è sostenere la speranza, che è diversa dall’ottimismo: l’ottimismo è la nostra valutazione di come possiamo modificare il presente e condizionare il futuro con le nostre risorse; la speranza invece viene da Dio, e ci invita a procedere nel mistero della pace; si manifesta in barlumi di grazia in mezzo alle avversità, in atti di gentilezza di fronte all’egoismo spietato, in momenti di tenerezza nella durezza di aggressioni implacabili (§ 77).
La spiritualità è una rete di attività e atteggiamenti condivisi dagli operatori di pace, che lega insieme una comunità; la spiritualità riflette i rapporti della vita Trinitaria; nutre, trasforma e santifica un mondo spezzato (§ 78).

Domande:
1) In quali modi la vostra chiesa propone l’educazione della pace a tutti i suoi membri, soprattutto a bambini e giovani?
2) Avete da condividere progetti ed esperienze di successo, che potrebbero essere di aiuto ad altre chiese?
3) In quale modo siete attivi nei ministeri di costruzione della pace? Potete fornire degli esempi?
4) In quali modi rispondete alla vocazione delle chiese di prendersi cura del crerato? Questa vocazione influenza la formazione teologica dei vostri pastori e la gestione delle vostre proprietà?

Capitolo 3

In cammino verso una pace giusta. L’ambito dell’impegno delle chiese

Dio non è mai glorificato dalla nostra violenza, né la nostra umanità ne è esaltata (§ 79).
“Poiché egli è la nostra pace… Egli è venuto ed ha annunciato la pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini” (Ef 2,14-17) (§ 80).
Gesù con la forza dello Spirito ha creato una nuova comunità fra nemici; in forza dello Spirito quelle nuove comunità spezzarono il pane insieme, si scambiarono il bacio della pace, si fecero dono dei loro beni e delle loro vite, resistettero alle forze di divisione: “popolo in cammino”, intrapresero una strada che trasformò le loro relazioni reciproche, fino ad eliminare la violenza dai loro cuori e dalle loro anime, dalle loro mani e dai loro piedi; impararono a trattare delicatamente la terra ed eticamente i nemici (§ 81).
Impararono un’etica per porre fine alle inimicizie, in modo realistico: Gesù e la sua comunità sapevano che noi siamo spesso nemici degli altri e di noi stessi, che nessuno è immune dalla violenza (§ 82).
Ma sapevano anche che in Dio c’è molta più grazia di quanto male in noi, così che, per grazia di Dio, possiamo vivere insieme come persone che, pur essendo ferite, guariscono gli altri (§ 83).
Sapevano che vivere insieme significa diventare un’unica umanità, che condivide un unico mondo (oikos). Lontani e vicini diventano un unico corpo attrarverso la croce (§ 84).
La riconciliazione dei nemici, che demolisce i muri di separazione, è l’ambito della pace giusta: la pace giusta richiede giusti costruttori di pace, giuste istituzioni e giusti stili di vita (§ 85).
L’educazione dello spirito forma i costruttori di una pace giusta; è un’antica pratica di formazione di un autentico sé; è insieme preghiera, offerta di ospitalità, un seminare e annaffiare con animo di fanciulli; è la fusione di convinzioni, moralità e grandezza d’animo, propria dei costruttori di pace quali benedetti figli di Dio (§ 86).
L’impegno spirituale è essenziale alla costruzione della pace come arte di governo (§ 87).

Le tradizioni cristiane della pace
Ripercorriamo i recenti sviluppi del pensiero e della prassi cristiani della pace (§ 88).
Differenti tradizioni, un cammino comune
Mentre le antiche tradizioni del pacifismo cristiano e la teoria della guerra giusta sono oggi superate, le diverse tradizioni del pacifismo cristiano hanno sviluppato un cammino comune adeguato al nostro tempo (§ 89).
Sostanzialmente due sono i rami del pacifismo cristiano: la tradizione pacifista e la tradizione del giusto uso delle armi; esse condividono la stessa legge cristiana per l’uso della forza e per la nonviolenza, e condividono lo stesso dovere della riduzione della violenza. Divergono però sul concetto di “guerra giusta”, con il quale non si intende giustificare la guerra, ma trattare i limiti entro cui un uso della violenza può essere giustificato, o giusto: ad es., nell’autodifesa per proteggere popolazioni innocenti, in azioni di polizia, in casi in cui la ribellione o la rivoluzione sono giustificate, in circostanze tragiche di inizio e fine vita (eutanasia, suicidio assistito, aborto terapeutico), nei casi eccezionali in cui strumenti di morte sono l’estrema risorsa (§ 90).
Entrambe le tradizioni concordano sul rifiuto delle armi come modo d’intervento accettabile nella prospettiva del Regno e sulla necessità del perdono e della riconciliazione, per riunire i nemici nel vincolo dell’alleanza. Tutti i cristiani tendono a realizzare un regno di pace in cui il benessere di ogni creatura è legato alla sicurezza di tutti (§ 91).
Le due famiglie delle tradizioni pacifiste cristiane riconoscono che l’uso della forza è talvolta necessario alla pace e alla giustizia, e concordano sulla necessità di difesa contro i poteri incontrollati. Ogni uso della forza dovrebbe essere contenuto ai più bassi livelli indispensabili, deve essere responsabile delle conseguenze e deve rispettare la dignità umana di coloro che la subiscono; il benessere degli altri, nemici compresi, va valutato nello stesso quadro morale del proprio benessere e perseguito con gli stessi metodi, secondo il comandamento cristiano dell’amare il nostro prossimo come noi stessi (§ 92).
Le due tradizioni pacifiste cristiane si sono però divise sull’uso eccezionale di una qualche forma di violenza omicida: i sostenitori del giusto uso ritengono che ci siano usi della violenza omicida moralmente permessi in casi strettamente limitati (normati dai criteri della guerra giusta); le chiese pacifiste invece sostengono il rifiuto senza eccezioni della violenza omicida, che è una sconfitta della società, genera ostilità, degrada l’umanità e innesca una nuova spirale di violenza; teologicamente, sarebbe impossibile giustificare l’uccisione di un essere umano, che Dio considera incondizionatamente prezioso e ama incondizionatamente (§ 93).
Compagni di cammino
Negli ultimi decenni pacifisti e sostenitori del giusto uso hanno collaborato in diverse occasioni:
– si sono opposti alle armi nucleari
– hanno lottato contro l’apartheid in Sudafrica
– si sono schierati contro i regimi dell’Europa dell’Est
– hanno portato avanti processi di ricerca della verità e riconciliazione in diversi paesi
– hanno aiutato a risanare la memoria delle violenze, ricordandone le vittime
– hanno rifiutato di assumere lo spirito di crociata nella “guerra al terrore”, cercando anzi di spostare la riflessione dalla prospettiva militare a quella politica (§ 94).

Circa la “guerra al terrore” e altri casi di violenza omicida il dialogo tra cattolici e mennoniti, portato avanti dalle due correnti (giusto uso e pacifismo), sottolinea l’importante differenza fra esercito e forza di polizia (compresa una forza di polizia internazionale): la polizia fa parte di una comunità i cui membri sono convinti che essa lavora per il loro bene; a differenza dell’esercito, non è addestrata primariamente per la lotta armata e usa le armi solo come estrema risorsa: la sua specificità è di salvare la vita, non di distruggerla; se è necessario uccidere, non è per “la vittoria”, ma per prevenire un ulteriore danno a innocenti (§ 95).
Uno studio neutrale sulla cessazione dell’attività di gruppi terroristi nel periodo 1968-2006 dà ragione alla posizione dei partecipanti al dialogo tra cattolici e mennoniti: si evidenzia che più efficace della forza militare è stata l’azione congiunta tra servizi d’informazione e inasprimento delle leggi; ma in realtà, nemmeno l’azione di polizia internazionale è stata la più efficace: si osserva che i gruppi terroristi si sono sciolti quando i loro membri sono stati coinvolti nel processo politico. Dunque: gli strumenti migliori sono la diplomazia piuttosto che la guerra, l’uso della polizia piuttosto che dei soldati (§ 96).
Bisogna allora interrogarsi sulla validità del “guerra-pensiero”, secondo cui l’uso della forza militare è legittimato dalla necessità di difesa e dal mantenimento della pace; sarà forse necessario sostituire al “guerra-pensiero” quello di una pace rivolta a costruire pace (§ 97).
Quando il mantenimento della pace è parte del “guerra-pensiero” diventano del tutto irrilevanti le doti e le azioni dei costruttori di pace, e trovano posto solo le capacità del soldato, del politico, dello specialista delle armi e del diplomatico (§ 98).

Prospettive aperte
La pace giusta e la collaborazione tra le tradizioni del pacifismo e del giusto uso si estendono ad ambiti sempre più vasti: violenza domestica, abusi sui bambini, violazione dei diritti umani, razzismo, violenza di genere, conflitti tra bande; si propongono processi di verità e riconciliazione nelle società in transizione, il risanamento delle memorie e lo sviluppo di mezzi per superare i conflitti in casa, a scuola, nella chiesa, nella comunità, al lavoro. Questi sforzi integrano quello che finora s’è fatto solo per la guerra e il conflitto civile (§ 99).
La costruzione della pace cristiana è molto più che un sistema di protezione per contenere il conflitto: è un completo discepolato, che poggia sulla formazione dei costruttori di pace attraverso l’educazione dello spirito (§ 100).
L’intero creato, il nostro oikos, è una vasta rete, vulnerabile e minacciata: la portata della giustizia non riguarda solo il bene dell’essere umano, ma anche il bene del creato planetario nella sua interezza. Se il resto della natura può fiorire anche senza il fiorire dell’umano, il fiorire dell’umano non può avvenire su un pianeta degradato; allo stesso modo, la terra può conoscere la pace senza di noi, ma noi non possiamo trovare la pace se la terra, il mare e l’aria vengono privati della vita (§ 101).
La fine dell’era del petrolio, la mancanza di terreni fertili, il bisogno inappagabile d’acqua potabile, l’alterazione del clima comporteranno problemi seri e grandi sofferenze. Si consideri poi la questione della popolazione: oggi siamo in sette miliardi; con il crescere della popolazione umana cresceranno anche i problemi: povertà, disoccupazione, sofferenza dei rifugiati, consumo sfrenato, impoverimento delle risorse, distruzione dell’habitat. La stessa energia psichica è molto consumata, per lo più tra grandi gruppi di persone: un affaticamento globale affligge milioni di uomini. C’è bisogno di una nuova energia morale-spirituale e di una nuova speranza (§ 102).
Non si può dire ai due miliardi di persone che si trovano in fondo alla scala sociale che le loro speranze sono irrealizzabili: non si può distruggere le loro speranze per proteggere i privilegi delle società agiate e soddisfatte di sé (§ 103).
La sfida della pace giusta è doppia: garantire i beni comunitari a tutti gli esseri creati da Dio in un pianeta in buona salute; affrontare l’indecenza della ricchezza superflua, in vista della dignità e del benessere di tutti i figli di Dio (§ 104).
Istituzioni giuste come parte di un ordine giusto
La portata allargata e la ri-concettualizzazione della pace per l’intera vita terrena conducono al tema delle istituzioni e dei modi di vivere giusti.
Gli argomenti che seguono potranno essere integrati da altre osservazioni e suggerimenti (§ 105).
Nessuno può essere integro in un mondo frammentato; per questo costruire pace e isituzioni giuste in un ordine giusto è necessario quanto l’educazione spirituale, dal momento che le istituzioni politiche, i sistemi e i modi di vivere ci formano e condizionano la nostra immaginazione e i nostri sentimenti: i mondi che noi abitiamo abitano dentro di noi (§ 106).
L’ordine economico ha sempre cambiato l’assetto del pianeta e dei suoi popoli: si pensi alla rivoluzione industriale e alla recente globalizzazione; ecco perché il programma AGAPE (Globalizzazione alternativa rivolta ai popoli e alla terra) del CEC richiede una visione dell’oikoumene che stimoli il movimento ecumenico a contribuire al superamento dell’impensabile disuguaglianza entro la comunità umana e fra gli esseri umani e il resto della comunità vivente. AGAPE propone che pace economica ed ecologica e giustizia siano affrontate insieme, con la massima partecipazione a tutti i livelli: solo così si avrà una vera “economia di vita” (§ 107).
Il processo AGAPE fa parte della consapevolezza mondiale del momento storico critico che stiamo vivendo (§ 108).

Dopo la seconda guerra mondiale i diritti umani, la crescita economica e l’avanzamento di libertà e sicurezza nella democrazia furono i grandi ideali che guidarono l’immaginazione e le attività di molti popoli. Tali ideali da una parte operavano in contrasto tra loro e peggioravano le condizioni di molti, dall’altra hanno portato benefici a milioni, forse miliardi di persone: nel bene e nel male, queste idee hanno informato il mondo degli ultimi 60 anni e hanno condotto all’attuale kairòs, un momento decisivo in cui ci troviamo a fronteggiare un pianeta surriscaldato e sovraffollato e iniziamo a porre finalmente ascolto ai bisogni degli strati sociali che ci condannano (§ 109).
Davanti a cambiamenti tanto drammatici la pace, la sicurezza, la crescita economica sostenibile, i diritti umani si possono garantire solo rivolgendo nuova attenzione ai quattro elementi: terra (il terreno), aria, fuoco (l’energia) e acqua. Una pace giusta può essere raggiunta solo sviluppando un’energia pulita, mitigando gli effetti del cambiamento climatico, opponendosi al crimine dell’estinzione e della perdita dell’indispensabile biodiversità: occorre creare strutture politiche, economiche e sociali che guardino alla terra come al miracolo permanente che ci dà vita e ci nutre. Le passate tradizioni di giustizia e pace non hanno considerato essenziale l’elemento ecologico: ora è necessario farlo (§ 110).
La scienza e la tecnologia, che pure hanno portato grandi benefici nel combattere le malattie, prolungare la vita media e aumentare la produzione agricola, sono state largamente al servizio dell’energia sporca (combustibili fossili), degli armamenti mortali e delle forze economiche e politiche che schiacciano le capacità di resistenza della terra. Quest’uso deviato di scienza e tecnologia dipende da un’erronea concezione della natura come “insieme di oggetti piuttosto che comunione di soggetti” (Th. Berry) (§ 111).

Questo momento storico richiede una costruzione della pace come ricostruzione economica, sociale e politica, secondo le più volte citate indicazioni di giustizia, pace e salvaguardia del creato. Nel libro Religion and Climate Change la “Earth Charter Guide” propone un’analoga serie di norme:
– solidarietà con le altre persone e le altre creature viventi
– sostenibilità nello sviluppo, nella tecnologia e nella produzione
– sobrietà come standard del consumo equo e dell’equa distribuzione delle risorse
– partecipazione sociale equa nelle decisioni che riguardano il nutrimento e il bene comune (§ 112).
Questo programma è compito di intere generazioni, e richiede una spiritualità nella costruzione della pace che duri per generazioni. D’altra parte, il messaggio “Gloria a Dio e pace sulla terra” arrivò in un tempo difficile, e la strada indicata da Gesù per il “popolo in cammino” si apriva davanti a tutte le generazioni future, fino alla fine dei tempi. La spiritualità della pace ha affrontato sconfitte e corruzioni, ma non ha mai dubitato del trionfo di una vita vissuta nella grazia di Dio (§ 213).

Conclusioni
Siamo nati per appartenere. La terra è la nostra casa: noi siamo microcosmo del macrocosmo nello stupefacente creato di Dio. “Pace sulla terra” è un messaggio celeste per la terra e per i suoi abitanti (§ 114).
Ma la nostra casa non è ancora quella che potrebbe essere né quella che sarà: la pace non regna ancora. I costruttori di pace sanno che dovranno criticare, denunciare, sollecitare e resistere, testimoniare, dar forza, consolare, riconciliare, guarire; il lavoro per la pace continuerà, come manifestazione di grazia sicura (§ 115).
Il nostro mondo interiore (costruzione della pace come educazione dello spirito) e il mondo esteriore (costruzione della pace in e con istituzioni giuste) hanno urgente bisogno di costruttori di pace. La terra ha bisogno di cristiani che si uniscano agli altri uomini per costruire la pace nel creato e per fare la pace con il creato (§ 116).
“… Alla fine uno spirito dall’alto sarà infuso su di noi e il deserto diventerà un frutteto, il giardino si cambierà in una foresta. Nel deserto abiterà il diritto e la giustizia nel giardino. Frutto della rettitudine sarà la pace; la giustizia produrrà quiete e sicurezza per sempre. Il mio popolo si stabilirà in una dimora di pace” (Is 32,14-20) (§ 117).

Domande e richieste:
In quale modo questi approcci alla “pace giusta” corrispondono alle tradizioni e ai modi di pensare della vostra chiesa?
Quali elementi vorreste aggiungere?
Vi chiediamo cortesemente di condividere episodi e suggerimenti concreti con l’Office of the International Ecumenical Peace Convocation.
Vi chiediamo di coniugare la costruzione della pace sia come educazione dello spirito che come sviluppo di istituzioni giuste e di un giusto ordine.