“Non uccidere” il tema al centro della tavola rotonda in Cattolica in occasione della Giornata di riflessione ebraico-cristiana

di Rosangela VEGETTI

1-52994

Appuntamento che si ripete ormai da 23 anni, la Giornata di riflessione ebraico-cristiana ogni anno rafforza le sue ragioni originarie – l’approfondimento e, appunto, la riflessione sul rapporto tra mondo ebraico e mondo cristiano – e apporta una ricchezza sempre maggiore nell’incontro delle rispettive tradizioni e spiritualità. Dagli incontri “profetici” tra persone appassionate a questo campo di dialogo dei primi anni, a Milano si è passati alla scelta di affrontare una lettura a due voci dei Comandamenti.

La proposta del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano – che da anni si fa carico della Giornata – si è centrata quest’anno sulla parola “Non uccidere” e si è consolidata con la compartecipazione della Scuola biblica diocesana in città (che ha inserito la riflessione ebraico-cristiana nel proprio ciclo di lezioni) e dell’Università Cattolica, che ieri sera ha ospitato l’evento in Aula Magna. Il frutto più evidente è stata la presenza di un folto pubblico, consapevole di poter ascoltare voci autorevoli di protagonisti del dialogo tra Cristianesimo ed Ebraismo, andando alla scoperta delle radici comuni della fede e del mondo dei valori etici.

“Non uccidere” non esaurisce la sua forza nel semplice divieto di non assassinare; è un concetto che va approfondito nella sua maggiore valenza di parola che Dio ha scalfito nella roccia su cui sono stati scritti i Comandamenti dati a Mosè, e che ha la forza di scalfire anche i nostri cuori. «Questo comandamento, che sta all’inizio della seconda tavola della legge scolpita nella pietra – ha detto il pastore Martin Ibarra, presidente del Consiglio delle Chiese cristiane di Milano – è l’architrave del rispetto dell’altro e della sacralità della vita, perché apre alla fratellanza universale. Così come dialogo e conoscenza portano all’atteggiamento giusto per sconfiggere le antiche e sussistenti forme di antisemitismo». Un tema di assoluta attualità, che porta a considerare tutte le forme di violenza legate alla crisi economica, ma anche ecologica, e a ogni forma di sopraffazione e di ingiustizia: «Non uccidere, oggi, significa entrare nella torah, la legge di Dio, e riprenderne le parole per rifondare la società».

In effetti, come ha spiegato monsignor Gianantonio Borgonovo, biblista e dottore della Biblioteca Ambrosiana, le dieci parole delle tavole della legge «vogliono abbracciare tutta la vita fino al tempo definitivo di incontro con Dio. Dio e prossimo sono gli estremi del comandamento». Non basta pensare che non si deve uccidere chi non ha possibilità di difesa; non si deve neppure uccidere nelle forme dell’ingiustizia, dell’arbitrarietà del giudizio, delle violenze senza ragione. Solo Dio è signore della vita, al punto che va difesa anche la vita dell’assassino, come detto nel testo di Genesi 4, 1-16, in cui Dio punisce Caino per l’uccisione del fratello Abele, ma condanna quanti volessero usargli violenza. «La vita dell’altro è un valore da rispettare», è il senso pieno di questo comandamento e nell’unico vero Dio sta la ragione del rapporto di rispetto e di difesa del prossimo. La Bibbia, infatti, dice con le parole di Giacobbe a Esaù: «Guardando il tuo volto vedo il volto di Dio».

Ma c’è bisogno oggi di questo comandamento? Se lo è chiesto rav Giuseppe Laras, protagonista di questa Giornata fin dalla prima ora. Se l’essere umano è naturalmente tendente a rispettare la vita, questo apparirebbe un divieto inutile; ma in realtà tale comando è in stretta connessione con “ama il prossimo tuo”, e allora qui bisogna impegnarsi molto, perché amare il lontano, lo straniero, il nemico non viene istintivo. «Fin dai primordi – ha detto rav Laras – l’immagine di Dio impressa nell’uomo consente di dominare l’istinto del male. Noi siamo custodi dei nostri fratelli, al contrario di quello che vuol sostenere Caino». Chi uccide un uomo è come uccidesse l’umanità e chi salva un uomo salva l’umanità. Perché Dio ha creato un uomo unico e una donna unica, per indicare che tutti siamo uguali, senza raffronti, ma anche per significare che «con un solo conio Dio ha dato origine a monete diverse, e in questo mondo ognuno di noi può dire “è per me che è stato creato il mondo”. Di qui la forza del comandamento di salvare e difendere il mondo».