Piergiorgio Acquaviva

Rabbino LARAS

Il 15 novembre scorso si è spento, all’eta di 82 anni, il rabbino Giuseppe Laras, torinese di origine, studioso di filosofia medievale (Mosé Maimonide, in particolare), professore universitario, grande conferenziere e saggista di fama internazionale, ma soprattutto campione del dialogo ebraico-cristiano. 

Fu rabbino capo ad Ancona e poi a Livorno, infine a Milano dove divenne guida religiosa degli ebrei dal 1980 al 2005. Negli ultimi anni fu presidente emerito e onorario della Assemblea rabbinica italiana e rivestì anche il ruolo di presidente del Tribunale Rabbinico del Centro-Nord l’Italia. Nel capoluogo ambrosiano divenne amico del cardinale arcivescovo Carlo Maria Martini e ebbe eccellenti rapporti anche con il cardinale Dionigi Tettamanzi, avendo cura comunque di valorizzare i rapporti con l’intero mondo cristiano.

A Livorno aveva conosciuto il vescovo Alberto Ablondi, ideatore della Giornata del 17 gennaio che la CEI decise di dedicare al dialogo con l’Ebraismo, e fu favorevolmente colpito dalla circostanza che a Milano quella giornata venisse celebrata dal Consiglio delle Chiese Cristiane, in un’ottica ecumenica, quindi. Del resto il pastore riformato svizzero Karl Barth già nel 1965 aveva ammonito che per tutte le Chiese cristiane “esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico”

Ricca la sua produzione filosofica e spiritale ebraica, eppure è interessante notare che rav Laras si interrogasse sul Gesù storico. Lo aveva fatto pubblicamente in un intervento del 1999, a partire da un articolo di don Giussani apparso su “La Repubblica” con il titolo “Noi siamo degli ebrei”, che riprendeva la frase “Spiritualmente siamo tutti semiti” utilizzata da Pio XI il 6 settembre 1938 in un discorso davanti a un gruppo di pellegrini belgi nel quale il Papa aveva denunciato l’antisemitismo (il giorno prima era stato introdotto in Italia il primo “Provvedimento per la difesa della razza” con il quale scolari e docenti ebrei vennero esclusi dalle scuole). Il rabbino di Milano sperava nel restauro di un “volto ebraico” di Gesù e aggiungeva: “Che cosa significa ‘un volto ebraico’? Significa che fino a pochissimo tempo fa il volto, la figura, la vita, i pensieri, la lingua di Gesù non avevano alcunché che ricordasse l’Ebraismo e l’ebraicità. Eppure Gesù era ebreo e, fino alla sua morte, si muove e opera all’interno di un’ottica, religiosa e comportamentale, assolutamente ebraica”. [In effetti nel 1985 la Santa Sede aveva pubblicato un “Sussidio per una corretta interpretazione dell’ebraismo” nel quale si dice che “Gesù è ebreo e lo è per sempre”, intendendo che anche il corpo del Risorto – secondo la fede cristiana – è un corpo circonciso].

Ma torniamo a Giuseppe Laras e alla sua storia straordinaria, che ripercorreremo attraverso sue proprie parole. Della sua vita amava infatti raccontare pochi ma decisivi aneddoti.

L’infanzia a Torino, per esempio, quando sperimentò l’amarezza del male. Nel 1943 sua madre e sua nonna furono deportate davanti ai suoi occhi, a causa della delazione di una portinaia, che per questo suo gesto aveva ricevuto 5000 lire dell’epoca per persona. Nottetempo riuscì a raggiungere persone amiche e riparò dall’altra nonna, fuori città, in una cascina. Per alcuni mesi non riuscì a proferire parola, poi riprese a parlare grazie alla compagnia degli animali, soprattutto – ricorda – di una capretta, Bianchina: “Il Santo e Benedetto – dirà più tardi – ha voluto che sopravvivessi agli orrori e alle ceneri della Shoah”.

L’altro periodo che ricordava con grande commozione si riferisce all’arrivo a Milano, nel 1980, praticamente in contemporanea con l’arrivo del gesuita biblista Carlo Maria Martini a capo della Diocesi di Ambrogio e Carlo: “Era il Number One – ricorderà – quello che purtroppo, con tutta evidenza, manca oggi. Ci siamo visti parecchie volte, anche dopo la sua rinuncia all’incarico nel 2002. Veniva spesso in sinagoga, a volte in forma privata e senza l’abito talare, per venire a trovare me o partecipare alle funzioni. Era ‘semplicemente’ uno di casa”. L’ultima volta che andò a trovare il cardinale, all’Aloisianum di Gallarate – le condizioni di salute si erano parecchio aggravate – i due si scambiarono le benedizioni, ponendo ciascuno le mani sulla testa dell’altro.

Da osservatore acuto della realtà contemporanea, recentemente Giuseppe Laras aveva sviluppato una visione critica delle involuzioni che vedeva avanzare, con il risorgere dell’antisemitismo e una certa stanchezza anche nelle relazioni ebraico-cristiane, spesso relegate a gesti puramente celebrativi. Nel 2010 aveva deciso di non presenziare alla visita di Benedetto XVI alla sinagoga di Roma, dopo le parole del Papa sulle “virtù eroiche” di Pio XII, il cui comportamento durante la Seconda Guerra Mondiale è ancora oggetto di valutazione storica.

Nel suo Testamento Spirituale, diffuso poche ore dopo la sua scomparsa, ha scritto: “In questi ultimi anni ho ritenuto di aiutare il dialogo ebraico-cristiano con una serie di critiche controcorrente. Per alcuni ciò è stato destabilizzante e fastidioso, alienandomi delle simpatie. Pazienza. Sono convinto della giustezza delle critiche mosse, tese solo al suo progredire e al suo correggersi, nonostante essere soli sia spesso difficile da sostenere ed estremamente scomodo. (…) Se tale Dialogo vuole continuare (come è imperativo che sia!), dovendo essere in primo luogo non teoretico ma pratico, deve progressivamente uscire dalle ambiguità su Israele (inteso come Stato, NdR), dato che lì vive la maggior parte del nostro popolo, ed è sempre lì che si sta edificando, tra disillusioni e speranze, il futuro di un ebraismo in ampia parte post-diasporico”.

L’ultimo appello era stato scritto nel 2015 dopo gli attentati in Francia: “Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. E’ la prima volta, dai giorni di Adolf Hitler, che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tuttavia è unicamente il tragico e spaventoso attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato ‘solo’ di ebrei. Parimenti non ci sono stati sgomento e allarme per il fatto che da anni ormai, giustamente, gli ebrei francesi abbandonino la ‘laica’ Francia. Così accade in molti altri Paesi europei, e il motivo è il medesimo, ovvero il dilagare del terrorismo di matrice islamista, con il suo carico di odio antisemita”.  Definiva il fanatismo religioso una nuova forma di “idolatria”, una pratica che profanava il Nome di Dio, “che invece – sosteneva – ebrei e cristiani sono chiamati, con modalità e compiti diversi, a santificare e testimoniare”.