Predicazione di Maria Cristina Bartolomei all'Annuncio ecumenico del 31/05/2008

Siamo nel giorno di Pasqua, il primo giorno dopo la celebrazione della festa di Pesah, la pasqua ebraica; il giorno in cui coloro che erano andati a festeggiarla a Gerusalemme facevano ritorno alle loro case. Tra questi ci sono anche due discepoli di Gesù. Ma il loro non è un ritorno festoso. La loro pasqua era finita in tragedia. Avevano appena assistito alla  più tragica delle conclusioni della vicenda del loro maestro, di quel rabbi galileo alle cui parole avevano creduto(forse avevano creduto di credere: perché la fede nasce a Pasqua), aprendosi alla speranza della venuta del Regno di Dio: condannato ingiustamente e morto di una morte atroce. E da Gerusalemme, dove rimaneva riunito un gruppo di discepoli di Gesù, loro si allontanano, desolati. La sequela,  dietro quel profeta, è finita. Non resta che tornarsene a casa, alla vita di sempre, senza più speranza.
Qualcuno per la verità aveva dato l’annuncio inaudito che il Signore era risuscitato. Nei versetti precedenti a questo brano si narra di come le donne (Maria di Magdala, Giovanna, moglie di Cusa, governatore di Erode, Maria di Giacomo e “le altre”, che in un altro passo di Luca sono dette essere “molte altre”) fossero andate al sepolcro, l’avessero trovato  aperto e vuoto e, avuta una visione di angeli, avessero compreso che Gesù era risorto dandone subito l’annuncio agli apostoli e a tutti gli altri, quei due discepoli compresi.
Ma non erano state credute: delle parole delle donne, soprattutto in materia religiosa, non ci si può fidare molto! Ma è anche vero che nessuno si apre alla  fede solo per la parola di un altro essere umano. Le parole degli altri sono per noi importanti, vitali. Noi respiriamo nell’atmosfera della parola scambiata, ce ne nutriamo: è il nostro habitat. Senza di questo, non saremmo umani. Ma la fede nasce solo da un profondo vissuto interno, personale. Se seguissimo semplicemente ciò che altri hanno detto, sarebbe un’adesione a qualcosa di esterno, non un apprendimento frutto di esperienza. Dunque, se le parole di altri sono ineludibile veicolo anche della fede (l’annuncio, la predicazione, la stessa scrittura delle Scritture), ciò avviene perché a quelle parole viene data una forza in più: ci possono entrare nell’animo, ci risuonano dentro, diventano nostra esperienza. E questa è opera dello Spirito. Se l’annuncio che si riceve dal qualcuno ci porta alla fede è perché il Signore stesso ha dato vita a quelle parole, ci ha parlato attraverso quelle parole. Così come non sono i fatti, gli eventi materiali (i “miracoli”) ad aprirci alla fede. Nei versetti che precedono il brano, si narra di Pietro che, dopo l’annuncio delle donne, era andato al sepolcro, l’aveva visto vuoto; era stato colmo di stupore, ma non per questo era nata automaticamente in lui la fede pasquale. Non ancora.
Dunque, questa è la situazione dei due che vanno verso Emmaus: una triste conclusione.
Ed ecco che la fine si trasforma in nuovo inizio.
Ma come, a quali condizioni, con quali modalità avviene che venga ribaltata la pietra con la quale, dentro il cuore, avevano chiuso per sempre Gesù nel sepolcro, lo avevano archiviato tra le cose morte, passate, fallite?
In risposta a queste domande, il racconto di Luca offre alcuni punti focali, alcuni temi principali, e molti bagliori, molte allusioni a prospettive ulteriori.
Il primo tema è il tema del cammino.
I due sono in cammino verso casa. Un percorso laico, quotidiano, per le strade della vita. Non una situazione “religiosa” o devota: non si trovano in un luogo di culto, né stanno compiendo un pellegrinaggio. Hanno perso la speranza, sì, sono ciechi e, come dirà loro Gesù stolti e tardi di cuore. Il motivo principale per il quale non sono riusciti a credere è che avevano una idea precisa, trionfale, di quella redenzione, di quella liberazione di Israele che si aspettavano da Gesù. Misurano l’agire di Dio sui loro schemi religiosi prefabbricati e questo li acceca. Nella Pasqua di Gesù non c’è stato il miracolo, il prodigio, la forza, il trionfo. Tutto al contrario. Come dar torto al loro scoramento? Eppure. Eppure lungo il loro cammino non cessano di interrogarsi su Gesù, su quanto era avvenuto. Non si danno pace. Non si danno agli affari. Stanno inquieti, in ricerca, anche se guardano nella prospettiva sbagliata. E vanno insieme, parlano tra loro, sono amici, in buona relazione, si fanno coraggio; hanno lasciato il gruppo, ma almeno tra loro sono solidali, si ascoltano.
Ecco un secondo tema: l’ascolto.
Quando una relazione umana, per quanto limitata e piena di pecche, ha qualcosa di autentico, di buono, lì è sempre presente la grande ombra luminosa del Terzo, di Dio che interviene e trasforma un dialogo -a due- pieno di ricerca e di buona intenzione, ma senza luce e senza uscita, come un ping-pong in cui ci si rimbalzano sempre le stesse cose, in un colloquio –a tre-, aperto al nuovo. Un colloquio: come quando si attinge insieme da uno stesso pozzo.
“Ascolta, Israele” è la professione di fede ebraica. La fede ebraica e cristiana ha nell’ascolto la sua dimensione fondante. Gesù stesso in questo brano prima di parlare ascolta, a lungo, ascolta l’umanità smarrita e in ricerca. Perché non ha una dottrina preconfezionata da somministrare. No, ha una parola viva da comunicare, che deve entrare in contatto con le attese e gli smarrimenti, gli errori e le speranze, per colmare e sanare gli uni e le altre. Nel culto che celebriamo questo ha un rilievo centrale: per questo all’inizio ascoltiamo un testo letterario, eco delle inquietudini e ricerche umane. Ascoltare, dunque. Ma chi e come ascoltare? I due discepoli ascoltano in primo momento solo sé stessi, le loro convinzioni e delusioni. Spesso quando preghiamo Dio di ascoltarci, chiediamo in fondo che Dio si lasci dettare l’agenda da noi. Gesù indirizza i discepoli di Emmaus e quelli di ogni tempo ad ascoltare altro, lui stesso, la Parola di Dio che ci parla nella Scrittura. E come distinguiamo quando stiamo ascoltando noi stessi, l’umano “troppo umano” (Nietzsche) che è in noi, e quando invece stiamo ascoltando l’Altro? Un riscontro c’è. E’ il cuore che ci arde. Non è una “prova” oggettiva, ma è la più indubitabile delle attestazioni nell’intimo di noi stessi, nel “cuore”. Non ci fanno ardere il cuore le parole che assecondano le nostre debolezze e inclinazioni malvagie, le parole che ci accendono invidia, avidità, cupidigia, odio, gelosia, disprezzo verso il diverso, indifferenza al dolore altrui. Le parole che ci gelano e ci induriscono, che ci chiudono, che ci fanno fermare, irrigiditi, nelle nostre posizioni, in difesa di quanto è nostro, che ci rendono aggressivi. Parole, queste, che risuonano forti intorno a noi, come sirene, dietro alla quali rischiamo di perderci. No. Qui c’è una parola che accende l’intimo di noi stessi. Che ci fa diventare e sentire vivi. Il bacio che brucia in cuore al Grande Inquisitore, come abbiamo ascoltato nella lettura de I fratelli Karamazov, è l’estrema possibilità di venir riscaldato dal gelo (il più profondo dell’inferno di Dante non è fuoco, ma gelo). Le conosciamo, le riconosciamo queste parole, quelle che ci destano dentro emozioni vitali, sono parole, nel senso più ampio del termine, comunicazioni di relazioni buone, che ci rendono a nostra volta capaci e desiderosi di metterci in relazione. Sono parole- testimonianze- gesti di gratuità, di amore donato e invocato, offerto e accolto. Amore che ci muove ad andare, con fiducia, verso il nuovo, verso l’altro: come Maria, dopo aver accolto l’annunzio dell’angelo, si mise subito in cammino per andare in aiuto della cugina Elisabetta.
Un terzo tema, una terza rifrazione di luce, tra le molte che si sprigionano da questa gemma che è il racconto di Luca è: la Bibbia.
Solo in riferimento a tutte le Scritture nasce la capacità di riconoscere Gesù. Per i discepoli di tutti i tempi la fede in Gesù risorto non è un fatto sentimentale, una folgorazione che dà una emozione forte e fuggevole. Richiede l’ascolto, la frequentazione assidua delle Scritture, della tradizione della fede di Israele, la metabolizzazione dentro di sé del loro messaggio. Ma non si tratta di cercare e trovare conferme (le “pezze d’appoggio”) di singoli atti o fatti di Gesù in profezie o in fatti della storia di Israele. Si tratta di accedere a quello sguardo sulla vicenda umana di cui abbiamo testimonianza nella Scrittura, in tutta la Scrittura, in ogni suo frammento, giacché come in un cristallo, ogni frammento (cioè ogni unità sensata di testo: non ogni singola parola isolata!) ha la stessa struttura dell’intero.  Gesù dischiude il senso pieno delle Scritture; le Scritture ci dischiudono la possibilità di riconoscere nel pellegrino anonimo che si accompagna al nostro cammino, che fa fatica con noi, il Signore Risorto, ci cambiano lo sguardo sulla vita, sulla storia: come una pietra che alla luce delle scritture rivela in trasparenza la sua filigrana di alabastro.
Il rinvio dagli accadimenti della vita alla parola che Gesù è, è una struttura costante degli annunci pasquali: è l’aprirsi alla fede al suono della sua voce che chiama, (così è per Maria di Magdala, per Tommaso detto Didimo) o al ricordo delle parole da lui dette (le donne che, dopo l’annuncio degli angeli, “si ricordarono delle sue parole”); è, come per i discepoli di Emmaus,  il richiamo al senso delle Scritture, che resta la struttura caratteristica del kerygma cristiano primitivo su Gesù: accadde “secondo le Scritture” è il ritornello costante.
Questi sono tre (non gli unici) dei temi principali della narrazione lucana. Ma vediamo ora di cogliere qualche risvolto ulteriore, qualche altra risonanza che il testo assume incontrando la nostra situazione e riflessione.
Il Signore si fa qui presente a un cammino umano che conserva qualità umana. Non perché nostre “virtù” siano condizioni del suo raggiungerci; tutt’altro: è il nostro peccato a muoverlo in nostro soccorso. La logica è un’altra. E’ quella, biblica, del “preparare la via del Signore”. Il Signore prese un pane per darlo ai suoi come segno del sono definitivo e perenne della sua vita: non prese una pietra o una serpe. Preparare la via: coltivare l’umano, perché possa diventare per grazia segno e luogo della presenza di Dio. Qui è messa in eveidenza la qualità umana dell’ascoltarsi, qualità umana dell’apertura al diverso, allo sconosciuto, nel racconto uno straniero ospite di Israele -un extracomunitario, potremmo dire-, tanto da invitarlo a mensa con noi.
Non si sa donde venga e dove vada, quel viandante, che compare all’improvviso, come lo Spirito. Si fa sera. I due non dicono “arrivederci”, “noi due ci rinserriamo nelle nostre case, nostre e solo nostre. Tu arrangiati”. No. Dicono: “entra e resta con noi”. Sollecitano la sua compagnia e gli offrono ospitalità. Ottengono il dono di ospitarlo dopo averlo pregato di rimanere. E’ il tema del restare, a contrappunto con quello del camminare. Gesù si fa presente sempre di nuovo nel nostro peregrinare nella vita, nel cammino della umanità e delle chiese, nella storia. Quando Mosè, al roveto ardente, prima di andare dal Faraone e dai figli di Israele chiede al Signore il suo nome, chi egli sia, ottiene in risposta una enigmatica formula di promessa: “Io ci sarò, come quel che sono, io ci sarò” (questo il senso del testo ebraico, non tanto “io sono colui che è”). Gesù è il Figlio incarnato di questo Signore, è il compimento più alto e pieno di quella promessa di accompagnarci nel viaggio; egli si fa presente, ma, perché resti, va pregato. E subito gli ospitanti vengono ospitati. E’ lui che “spezza il pane” per loro, come prima ha sfamato la loro fame di comprensione della Parola. La fede –e quindi possiamo dire l’unità della fede- non è premessa al sedere a mensa col Signore, ma ne è il frutto.
Certo, dietro a questo passaggio della narrazione c’è la prassi liturgica della comunità, che celebra la Santa Cena. Una prassi attuata da tutte le chiese cristiane, ma non unite tra loro. Questo potrebbe darci come prima reazione, in un culto ecumenico, il sentimento di dolore per tale divisione nella celebrazione della Cena del Signore. Il dolore è giusto e appropriato. Ma sarebbe sbagliato fare della Liturgia eucaristica l’unico e immediato metro di riferimento per lo stare a mensa col Signore. Spezzare il pane allude in primo luogo alla condivisione umana del pane e, di più, di sé stessi, di quanto si ha e si è. Il Signore che fa il gesto di spezzare il pane è colui che ha spezzato tutta la propria vita, tutto se stesso per noi. Questa condivisione, questo senso dello stare a mensa insieme è preso dal Signore come luogo e segno della sua presenza di Risorto. Ma i nostri “pasti” (in senso lato) sono ingiusti, non sono condivisione del pane e dell’acqua con una umanità affamata e assetata, la nostra vita non è una mensa di condivisione. Camminiamo, dunque, verso la condivisione della Cena del Signore (e possiamo anche dire realizziamo già la condivisione di questo stare a mensa) anche e non da ultimo progredendo nella condivisione del pane con l’umanità, nel compiere insieme, in memoria del Signore, il servizio di lavare i piedi all’umanità sofferente, di condividere con tutti i nostri beni e la nostra vita, oltre che nello sfamarci insieme del pane della Parola, che il Signore spezza per noi.
Lo scrittore italiano Mario Rigoni Stern descrive un fatto incredibile della ritirata di Russia,  durante la terribile battaglia finale di Nikolaevka (26 gennaio ’43), combattuta dal corpo di spedizione italiano per uscire dall’accerchiamento dell’esercito russo. Era ormai una battaglia casa per casa. Gli italiani, esercito invasore, il pochissimo cibo che avevano nel gelo dell’inverno, in gran parte lo dovevano alla bontà di cuore dei contadini russi. Rigoni Stern, sergente dell’artiglieria alpina, entra armato in un’isba nel corso della battaglia. A tavola ci sono, insieme alle donne e ai bambini, alcuni soldati russi, armati. Si guardano. Rigoni dice, in russo, “Ho fame”. Una donna si alza, gli porge un piatto di zuppa di latte e miglio. I soldati russi non si muovono. Lui mangia.
Rende il piatto. “Grazie” – “Prego”. E se ne va. E commenta: “eravamo riusciti a restare uomini, semplicemente. E se è successo una volta potrà succedere ancora a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere”. Un fatto inaudito per quel momento. Quegli uomini avevano insieme vinto la guerra, lo spirito della guerra e si erano riconosciuti condividendo il pane. Non era forse presente in quel loro incontrarsi il risorto, colui che rinnova la creazione originaria di Dio?
Andiamo alla conclusione del racconto di Luca.
Il Signore apre i loro occhi, si rende riconoscibile e insieme scompare alla loro vista. E’ l’unico aspetto sovrannaturale dell’episodio. “Dio è nel dettaglio”, ha formulato Paolo De Benedetti. Soprattutto in questo dettaglio: il suo sottrarsi a essere trattenuto da chicchessia, come fosse un possesso a sua disposizione, anche da uomini e donne religiose, anche dalle chiese. La sua presenza è sempre pasquale: è sempre un passaggio: come sul Sinai, come per Elia sull’Horeb, come si narra della vita di Gesù “che passò” beneficando, come nelle manifestazioni post-pasquali di Gesù, come nelle celebrazioni liturgiche, come nei nostri incontri umani più significativi, in cui, come dice Pavel Evdokimov (rinviando proprio all’episodio di Emmaus), la relazione umana per un momento viene trasfigurata, fa tralucere l’invisibile, nel quale i credenti riconoscono la grande ombra luminosa di Dio. “Dio è un bacio”, diceva negli ultimi tempi della sua vita un uomo spirituale del nostro tempo, il monaco camaldolese  Benedetto Calati; è la stessa conclusione immaginata della vicenda  del Grande Inquisitore: il Signore che depone un lieve bacio sulle sue labbra esangui di novantenne (uomo alla sera della vita). Non si può trattenere, fissare.  Diverrebbe un idolo. Come non si trattiene un lieve bacio. Resta con noi, svanendo, ma cambiandoci la vita. Resta, non fermandosi, ma continuando ad andare. Nella bellissima icona che vediamo qui, nel presbiterio, Andrej Rublev rappresenta la Santa Trinità nel simbolo dei misteriosi pellegrini (come ci indica il bastone che ognuno ha in mano), in realtà angeli,  ospiti di Abramo al querceto di Mamre (Gen 18, 1-16). La Spirito, la figura di destra, i piedi nell’attitudine di chi sta per mettersi in via: la presenza di Dio sul nostro cammino.
I due discepoli, dopo l’incontro col Risorto, mediante l’ascolto della Parola della Scrittura e la condivisione della mensa, cambiano la direzione del cammino. Conversione della mentalità è il senso del termine greco metànoia; cambiamento di direzione, “ritorno” è il senso di teshuvà, il termine ebraico per dire il pentimento. Nel racconto, le due dimensioni coincidono. Abbandonata la loro “fede” iniziale, miracolistica e infantile, accedono alla comprensione del mistero della Croce e resurrezione. Comprendono che il dono del Risorto è la resurrezione dell’essere umano, dal cuore e dagli occhi chiusi, smarrito e confuso.  Abbandonato il loro itinerario, “tornano” davvero, questa volta, alla vera casa, che è Gerusalemme, si riuniscono agli altri, riprendono con loro la comune avventura dell’essere discepoli,  diventano per loro testimoni, vengono confermati dalla testimonianza altrui. D’ora innanzi ricercheranno l’incontro col Signore insieme con gli altri, là dove insieme si leggono le Scritture e si sta a mensa con lui.
Non importa dove ci troviamo, in genere nella nostra vita o in questo momento: tra questi ultimi, tra coloro che frequentano le liturgie;  tra coloro che riflettono con fatica sulla Scrittura; tra coloro che sono confusi  e smarriti. Il Signore mantiene la sua promessa di farsi presente, qui e ora, sempre di nuovo. Preghiamolo di restare con noi. Amen.