ottobre - novembre 2009

Scansione tematica dell’itinerario di ricerca:

1.      Ethos: l’appartenere e il punto di resistenza
2.      La sapienza del pensare e l’enigma dell’esistenza
3.      La prova del senso: il dolore
4.      La felicità come vita che fiorisce
5.      La virtù e la contingenza
6.      Governare l’improbabile
7.      Il cristianesimo di un non credente
8.      La Pietas della comune umanità

1 – Ethos: l’appartenere e il punto di resistenza
L’uomo viene al mondo perché qualcuno ve lo ha messo, vive perché qualcuno l’accoglie. Si trova, dunque, fin dall’inizio collocato in una rete di relazioni da cui non può prescindere. L’etica corrisponde al modo in cui gli uomini abitano la terra e per questo, prima ancora che con il dovere, ha a che fare con l’abitare e in senso stretto con l’esistere. La parola greca éthos, infatti, oltre a significare costume – appunto morale – vuol dire anche soggiorno, sede, dimora. La morale, in quanto abitudine, coincide con "quel che è in uso", con le pratiche di una qualsiasi comunità. Ethos deriva, infatti, dalla radice sanscrita svadha, da cui il verbo étho che vuoi dire "sono abituato", "ho costume". Dalla stessa radice derivano i verbi latini suesco, "sono avvezzo, assuefatto" e soleo, "sono solito". Di qui anche il termine sodalis, che traduciamo con "amico" colui con il quale abbiamo appunto consuetudine, frequentazione, con cui condividiamo esperienze. Nel venire al mondo l’uomo prende posizione in esso, entra in relazioni d’appartenenza. (…)
L’appartenersi emerge sullo sfondo dall’appartenere – a diverso titolo – alla famiglia, al clan, alla comunità, alla società; ma si determina insieme come rivendicazione della propria autonomia. L’uomo, una volta scoperta la propria individualità, si costituisce come punto di resistenza. Se le cose stanno in questi termini, l’etica è insieme sovraindividuale e personale, e un singolo individuo non può essere mai un fondatore di morale. L’etica si configura, perciò, come un insieme di riti, tradizioni, abitudini, è qualcosa che riguarda prioritariamente la comunità che senza di essa non esisterebbe. Quando l’uomo impara a parlare non inventa affatto una lingua – nessuno lo capirebbe, né lui capirebbe sé stesso –; al contrario entra in un discorso già in atto. E allo stesso modo apprende a gioire, a soffrire. L’etica coincide sempre e in ogni caso con forme determinate di vita e per questo apprendere a vivere equivale a vivere secondo le regole di una comunità. Nella sua costituzione originaria l’etica corrisponde agli abiti e alle condotte che regolano la vita di una comunità. Per questo nelle società arcaiche l’organizzazione sociale non differisce di molto dalla condotta morale ed è perciò impossibile distinguere tra morale e politica, poiché gli stessi rapporti di potere hanno implicazioni immediatamente morali. Per comprendere cos’è morale è allora opportuno prendere in considerazione come funzionano le morali, come nascono, cosa risolvono.
La morale, in quanto modalità dell’appartenere, può essere descritta come "conformità a regole". E dal momento che le regole precedono l’individuo, non possono che essere date, e non tanto per coercire ma per aiutare gli uomini a condursi nella vita. Nessuno potrebbe vivere – e meno che mai vivere bene – se dovesse sbrigarsela da solo. La legge – e in senso lato le consuetudini proprie ad una comunità – lungi dal reprimere gli individui, li orienta. Per vivere bene l’uomo deve elevarsi all’altezza della legge, deve considerare sé e le proprie azioni dal punto di vista della sua appartenenza.
Ogni uomo è definito dalle sue relazioni di appartenenza e tuttavia non si annulla in esse, ma si costituisce come identità, appunto si appartiene. È vero che ogni uomo che nasce entra in una rete di relazioni, ma vi entra in modo originale ed irripetibile. Certo io vivo con gli altri, ma nessuno può vivere al mio posto. Appartenere e appartenersi sono due dimensioni coesistenti e tuttavia distinte. Ogni uomo prende consapevolezza di sé nel contesto in cui si trova: è improbabile che lo possa fare altrimenti e tuttavia viene a scoprirsi unico ed insostituibile. Di qui una tensione costante tra il "singolo" e la "comunità". La scoperta di sé, la consapevolezza dell’autonomia dei singoli non è da sempre esistita, ma è emersa storicamente entro le comunità attraverso una progressiva differenziazione delle funzioni sociali: sacerdoti, guerrieri, contadini. All’interno delle società antiche vi erano uomini che emergevano in tutta la loro singolarità a fronte di masse senza nome. Per quanto attiene all’Occidente, è con il cristianesimo e soprattutto con la modernità che gli individui hanno guadagnato a mano a mano la scena uti singuli, sono emersi come individui in tutta la loro singolarità. Se dunque nelle società antiche le relazioni comunitarie prevalevano sull’originalità degli individui, a partire dalla modernità i singoli hanno preso a valere per sé stessi fino a rischiare l’eccesso opposto: un accentuato individualismo. Ad ogni modo, attraverso la divisione del lavoro, e il moltiplicarsi delle professioni, gli uomini sono divenuti visibili "ognuno per sé" evidenziando le loro particolari doti e qualità. In questo punto la morale ha cominciato a configurarsi come qualcosa che riguarda gli individui, come qualcosa che ha a che fare con l’appartenere a… – la relazione comunitario-sociale – ma anche con l’appartenersi.
Nell’appartenere a sé stessi gli individui rivendicano la loro autonomia e originalità, la morale si muta in questione personale e riguarda propriamente la formazione di sé, l’educazione del carattere.

(S. NATOLI, Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, Brescia 2006, 65-69)

2 – La sapienza del pensare e l’enigma dell’esistenza
Filosofo è colui che accetta la sfida del Dio e si cimenta con lui: " Il signore che è in Delfi – infatti – non rivela e non nasconde, ma dà un segno" (Eraclito.) Di qui un continuo domandare e rispondere, il perpetuo modificarsi delle forme dell’interrogare, un ricominciare sempre daccapo. Per questo nessuna disciplina come la filosofia è storicamente cresciuta distruggendo se stessa, deponendo continuamente il suo passato come errore o, hegelianamente, come peripezia, nessuna al pari di essa si è formulata come crisi. […]
Cosa dunque caratterizza la filosofia come forma di sapere? La trasformazione del segno in senso. Ma l’esercizio della filosofia è sufficiente per attingere definitivamente il senso delle cose? Non credo. Certamente la filosofia tesse reti, getta ponti sull’abisso e in questa sfida si struttura come linguaggio. A fronte dei problemi cerca risposte, elabora concetti quasi a tappare un buco originario incolmabile, edifica sistemi per compensare un vuoto. Di qui un repertorio di parole fondanti, di categorie divenute inevitabili. È il vocabolario dell’Occidente. Per questo ritengo che oggi uno dei modi migliori di fare filosofia sia proprio quello di ripensare le sue grandi parole, di evocarne la sapienza dispiegando gli strati di senso e cogliendo nelle loro pieghe i significati nascosti. La filosofia strutturandosi in concetti ha creato luoghi ospitali per le cose.
Le parole-idee, le idee-parole sono come le costellazioni, salvano i fenomeni allo stesso modo con cui quelle permettono di leggere i cieli. "Le idee intrattengono con le cose un rapporto simile a quello che c’è tra le immagini delle stelle e le stelle. Le idee sono come costellazioni eterne, e in quanto gli elementi vengono concepiti come punti dentro simili costellazioni, i fenomeni vengono suddivisi e insieme salvati". Le stelle stanno in cielo a una a una, ma tramite esse si disegna lo spazio, esse rendono percorribile l’illimitato. In ciò un grande artificio, ma che trattiene: le reti che ci imprigionano sono anche quelle che ci sostengono. La filosofia in quanto generatrice di concetti capaci di ospitare le cose "edifica". Per questo la distinzione tra filosofie sistematiche e filosofie edificanti non è molto istruttiva: tutte le filosofie, infatti, edificano, e se il frammento è cifra dell’inafferrabile, il sistema è lo sforzo di dare a esso un volto.
Rispondere alla sfida dell’enigma impegna alla risposta. Ma come farlo, come dare volto all’assenza? Tramite simulacri, maschere del chaos. È il teatro filosofico. I discorsi, gli argomenti cercano, per quel che possono, di dare stabilità agli eventi, elaborano forme che sembra siano capaci di salvaguardarne il senso, che risultano persuasive, convincenti e a questo titolo s’impongono.
L’epistēmē, la scienza, non è una verità che si sottrae al tempo, ma è un tempo della verità. Sta per quel tanto che regge, ma l’origine è più profonda di ciò che la riempie. L’abisso costantemente si riapre.

(S. Natoli, Parole della Filosofia, Feltrinelli 2004, 21-22)

3- La prova del senso: il dolore
Il dolore, qualunque sia la sua origine ed in qualunque modo sia vissuto, rompe il ritmo abituale dell’esistenza, produce quella discontinuità sufficiente per gettare nuova luce sulle cose ed essere insieme patimento e rivelazione. Il mondo si vede in un modo in cui mai prima s’era visto. Il dolore è veicolo di conoscenza non per astrazione, ma per immedesimazione: oltre certi limiti dall’uomo controllabili esso si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza. A questo titolo il dolore è fatto personale, ma è anche evento cosmico: questo intreccio di singolare e di universale, mai del tutto districabile nell’esperienza del dolore, permette a questa esperienza di farsi linguaggio.
Se nel dolore non si intrecciassero in modo indissolubile, seppur enigmatico, l’individuale ed il totale, mai esso giungerebbe alla parola: la sofferenza rimarrebbe l’esperienza muta che è. Solo il riverbero di universale, che è presente in ogni esperienza individuale di dolore, permette a chi soffre di comunicarlo e a chi guarda di presentirlo e di riconoscerlo. A controprova di questo basta considerare quanto accade nella vita comune: il muro di silenzio che si innalza tra coloro che soffrono e coloro che non soffrono e che separa, al di là di ogni sentimento di pietà; l’impotenza di ogni consolazione, la vanità delle parole che pretendono di apportare sollievo e che il sofferente amorevolmente tollera o con irritazione rifiuta. Il dolore crea questi intransitabili confini: essi si formano subito ed inevitabilmente in proporzione alla densità di dolore: in una parola, la sofferenza accerchia e divide. L’assedio e la separazione rendono le parole eccedenti e superflue rispetto al dolore. Se della dolcezza dell’amore Dante ci dice che "’ntender no la può chi no la prova", a maggior ragione questo si deve dire del dolore: tuttavia nella sofferenza non vi è solo disequazione tra il tipo di esperienza e la comunicazione, ma vi è una recessione della comunicazione stessa. Il rischio non è il fraintendimento, ma il muto patire che strettamente si imparenta alla morte.
Il dolore, infatti, è vita che si riduce, il suo rischio più alto la morte. Il sofferente tende al silenzio o al grido: se la sofferenza non lo invade gli è più o meno possibile dissimulare. In tal caso chi soffre si permette perfino il lusso dell’autoironia. Ad ogni modo il dolore sfugge al discorso. L’amore, che è espansivo, non si dice in alcun discorso, ma è generativo di segni e di parole; il dolore in ogni segno che dà di sé si riproduce come estremo enigma dove non c’è che dire, o se c’è da dire qualcosa essa non può essere di molto diversa da quello che Manzoni mette sulla bocca di Tonio inscimunito dalla malattia: "a chi la tocca, la tocca."
Eppure del dolore si parla. Il sofferente, nonostante il muro di silenzio che lo separa dagli altri, per quel tanto che ha di vita cerca parole, e forse anche le trova. Perché quest’opposta tendenza? Perché in ogni individuale soffrire c’è un riverbero del dolore universale: c’è una muta solidarietà tra chi soffre, c’è una tresca ed un ammiccamento tra chi soffre e chi non soffre; e tutto ciò non avviene attraverso la via della comunicazione individuale e diretta, ma per il fatto che dinanzi ad ogni emblema di sofferenza ognuno, a suo modo, si sente chiamato in causa.

(S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 2008 8-12)

4- La felicità come vita che fiorisce
Nella felicità l’uomo ha la sensazione di una propria illimitata espansione. È vero, ma l’idea d’«illimitato» è nozione complessa. Vediamo allora cosa, in questo caso, significa. L’illimitato comporta che la felicità, che indubbiamente è pienezza, sia intaccata, seppure in modo del tutto singolare, dalla mancanza. Dico di più: senza la mancanza sarebbe impossibile la felicità. Se infatti il vissuto della felicità coincide con il sentimento della propria illimitata espansione, per espandersi è necessario che qualcosa manchi, che vi sia un intervallo, un vuoto che permetta l’incremento. La felicità non può essere statica, la pienezza non coincide né può coincidere con il riempimento, come dire il bicchiere colmo. Per accrescersi, qualcosa deve mancare. Ma la mancanza che inerisce alla felicità è, appunto, singolare: non è esperita come privazione, distanza, impossibilità, non ha a che fare con l’irraggiungibile, ma al contrario con il disponibile, il prossimo, l’intimo. La felicità ha bisogno della mancanza intesa come un «deficit minimo», un necessario «piccolo intervallo» che renda possibile l’espandersi e non sia tuttavia patito come separazione dall’oggetto del desiderio, che al contrario è lì, vicino, non si sottrae, si lascia afferrare.
Lo sfondo della felicità è l’inesauribile a partire dal disponibile. Nella felicità la mancanza non viene esperita come assenza, ma come fruibilità infinita, come il sempre da compiersi di una presenza. L’espressione corrente «stare accanto» dice perfettamente l’intimità con l’oggetto del desiderio, ma indica anche l’intervallo, il breve, ineliminabile solco che separa e impedisce l’identificazione assoluta tra le persone, perfino tra uomini e cose. Ciò che si desidera non può essere annullato dal e nel soggetto desiderante: questo accade solo nel patologico. Al contrario, è necessario che nel desiderato resti sempre qualcosa di irrealizzato perché sia ancora desiderabile, fruibile come se fosse ogni volta un inizio. Quel che amiamo ci dà felicità se, in qualche modo, è sempre da conquistare, senza tuttavia che esista il timore di perderlo. Se così fosse, verrebbe meno proprio lo «stare accanto».
Nello starsi accanto, dunque, si ha cura per ciò che sta a cuore, e il reciproco aver bisogno è segno dell’instaurarsi di un accordo perfetto. In quest’atmosfera vi è la sensazione indefinita, ma non meno certa, di un corrispondersi che sembra non debba mai svanire. In effetti, una delle condizioni in cui gli uomini vivono momenti di felicità è proprio quella dello starsi accanto. È questa una delle modulazioni più alte della relazione d’amore e non si tratta unicamente di una prossimità fisica, ma di un’affinità del sentire. Poco importa se questo sentimento sia breve o durevole, qui mi preme indicare solo uno stato della mente. Nello «starsi accanto», perfino il piacere sessuale cambia di natura: l’atto diviene qualcosa di più che un bene in sé, meno che mai può costituirsi come un fine – cosa che tante volte accade –, ma è piuttosto rivelativo dell’imprescindibilità dell’altro, corrisponde al bisogno di ricercarlo sempre e di nuovo, di averlo e tenerlo presso di sé.
In questo caso non è il corpo a soddisfare un bisogno, ma si ha bisogno dell’altro come tale, perché è lui.
Nel reciproco affidarsi, agli uomini capita di pervenire alla beatitudine. Ed è proprio l’affidamento reciproco che nutre le profonde e grandi amicizie, che si svela quotidianamente perfino nella passione delle cose, nella cura che si dedica a esse.
Nella felicità si diviene intimi al mondo, e molteplici sono i modi, le forme, le manifestazioni di quest’intimità: lo si è quando si coltiva un giardino, quando si alleva un bambino, perfino quando si condivide un dolore. In situazioni siffatte si è afflitti ma stranamente felici, e non certo per lo stato delle cose, ma perché si sperimenta come l’amore, che non è possesso, sia capace di fecondare (fe-licitas/fe-cunditas) il mondo, di renderlo vivibile perfino laddove è atroce. Starsi accanto vuol dire esperire l’inesauribilità della differenza – l’altro non potrà mai essere me stesso – nella certezza della corrispondenza.
Contrariamente alle filosofie dell’egoismo, si può dire che l’uomo tanto più si espande quanto più diviene intimo alle cose, le accoglie, le custodisce. E s’impoverisce se le asservisce, se le consuma, se le annichilisce: in tale crescita, l’unica cosa che cresce è il deserto.

(S. NATOLI, La felicità di questa vita, Mondadori, Milano 2009, 93-95)

5 – La virtù e la contingenza
Oggi ha ancora senso parlare di virtù? È ancora possibile essere virtuosi? Per virtù comunemente s’intende l’agire bene, se si vuole la buona condotta, intesa come perseguimento del bene in sé e insieme come conformità a norme ritenute buone.
Nell’antichità classica il bene era evidente di per sé. Di fatto lo si faceva coincidere con l’andamento stesso della natura. "Agisci secondo natura" – dicevano, infatti, gli stoici. Nel medioevo cristiano, poi, essere e bene erano il medesimo: ens et bonum convertuntur. È probabile che in quei mondi non sia stato facile essere virtuosi, ma non era certo difficile identificare la virtù. Il bene era evidente, oggettivo; al contrario, innaturale per quanto diffuso era il male. Non agire bene equivaleva ad agire contro natura e tale agire trovava la sua inevitabile nemesi nell’autodissoluzione. In questo quadro le virtù erano da intendere come qualità caratterizzanti i diversi tipi di azione in vista della realizzazione di un definito bene. La virtù, in quanto attività disposta al bene, era dunque abito, condotta.
Nel moderno questo non è più possibile, o non è possibile allo stesso modo. Nel moderno il bene si discioglie dal vero e perde la sua oggettività. All’alba della modernità, le guerre di religione avevano peraltro mostrato come le lotte per la verità, lungi dal far risplendere l’unità del vero, avessero prodotto dolore, macerie, sangue. Da quelle guerre l’Europa era uscita stanca e le era stato relativamente facile rinunciare alla verità per la pace. Da quel momento il fine che la politica dovrà perseguire non è tanto quello della realizzazione del bene, quanto quello della tutela dal male. In questo quadro le virtù guadagnano neutralità rispetto al bene. Più esattamente il bene coincide con i perseguimento del proprio bene. Ma il perseguimento del proprio bene non esclude il perseguimento del bene pubblico, anzi, per molti versi, lo presuppone. In questo caso, quel che poi verrà comunemente chiamato pubblico benessere viene a coincidere con il libero gioco di interessi da alimentare e favorire, evitando però che tutto questo degeneri in conflitto.
Nel moderno le virtù, distaccandosi sempre di più da bene oggettivamente inteso, finiscono per trasformarsi in qualità psicologiche, in dotazioni individuali e perciò anche in risorse collettive, prodotte e distribuite tramite processi di formazione: disciplinamento sociale e sistema delle discipline. Tutto ciò allo scopo di ridurre i vincoli, di ampliare gli spazi di libertà, di accrescere le prestazioni della società nel suo complesso.
Un tempo, quando si parlava di azione virtuosa, si intendeva, in generale, l’azione buona. Questo modo di pensare induce oggi a fraintendere. A partire dal moderno, infatti, le virtù si vengono sempre di più configurando come le capacità di un soggetto, come risorse utili per garantire il bene e in particolare quel bene sociale per eccellenza che va sotto il nome di pace e sicurezza. Se nel moderno le antiche virtù non sono più da considerarsi un bene in sé, non per questo cessano di essere risorse per la vita pubblica più in generale per la politica. La politica, infatti, ha senso in quanto è fatta per garantire, custodire, provvedere al bene dei cittadini. La soggettivizzazione moderna delle virtù non coincide affatto con il loro accantonamento, ma con un loro diverso investimento. Detto altrimenti: la soggettivizzazione moderna delle virtù non ha estinto l’agire virtuoso, ma ha fatto sì che quanto prima si pensava prevalentemente in termini di obbligo si venisse a mano a mano formulando in termini di risorsa.
Ora, se è del tutto plausibile concepire le virtù come risorse soggettive, ciò non comporta affatto che debbano essere intese come potenze arbitrarie, sciolte da ogni vincolo, e necessità. E questo risalta con maggiore evidenza nelle virtù pubbliche o della cittadinanza. L’interesse generale può non coincidere con l’oggettività del bene, ma in certo modo lo chiama ancora in causa, lo esige quanto meno come un criterio condiviso, un medio che si costituisca come tramite di senso tra le diverse azioni degli uomini.
Il modo antico di concepire la virtù è da ritenersi troppo semplice e forse anche ingenuo rispetto all’attuale complessità del mondo. Tuttavia, proprio per questo diviene più che mai impellente domandarsi che ne è delle virtù "dopo la virtù". La complessificazione del mondo, la disparità di risorse, scelte, destini, ha definitivamente escluso l’oggettività del bene, o il bene naturalisticamente inteso e univocamente definibile. Dal momento che non esiste più l’oggettività del bene, il massimo bene per gli uomini sembra oggi risiedere nelle possibilità che essi hanno di perseguire al meglio il proprio. Tuttavia a nessuno sarà mai concesso di conseguire il suo bene se non permette agli altri di conseguirlo. Quando questo non accade si scatena la guerra: il conflitto diviene endemico se gli uomini non ritrovano reciprocità. Ma, fatta salva la pace, è ugualmente improbabile che si possa fruire del proprio bene da soli.
Se ciò è vero, l’istanza irrevocabile dell’altro è condizione del nostro bene, e per questo la virtù non consiste tanto nella pretesa dell’universale, quanto nel riconoscimento del diverso. In questo caso vi è poco o nulla da imporre, molto da proporre. Da proporre perfino se stessi. E senza presunzione. Virtuoso, infatti, non è colui che si conforma a una legge, ma colui che sa divenire norma a se stesso, che sa assumere su di sé, e consapevolmente, la sua finitudine. La virtù non invade lo spazio dell’altro, ma libera spazio e fa distanza perché l’altro possa essere meglio e più autenticamente raggiunto nella sua libertà. La virtù, così intesa, ritengo si disponga a un livello più alto del dovere. È arte discreta del ben vivere.

(S. NATOLI, Dizionari dei vizi e virtù, Feltrinelli Milano 2008, 155-157)

6- Governare l’improbabile
A mano a mano che l’uomo accresce il suo dominio sulla natura, si modifica la sua esperienza del rischio. Per l’uomo arcaico il rischio veniva prevalentemente da fuori, dall’imprevedibilità stessa del mondo. Il mondo è pieno di pericoli. In questa situazione il rischio coincideva effettivamente con il pericolo. La condizione prevalente dell’uomo era allora non tanto quella dell’ "arrischiare" quanto quella "dell’essere messo a rischio", dell’essere in balìa dell’altro (il diverso da sé): in breve, dell’essere esposto.
A mano a mano che l’uomo apprende a dominare la natura, evita più facilmente i danni che possono venire da essa. Nel contempo comincia ad immettere rischi attraverso le sue decisioni. Nel tempo della tecnica chi rischia non deve tenere in conto solo quel che può ottenere, ma soprattutto quel che deve evitare, che non deve accadere. Deve fare i conti – fino a che può – con le conseguenze imprevedibili delle sue decisioni. Come? Esistono certamente teorie del rischio, ma ad ogni modo è rilevante il fatto che un tempo il rischio era in vista del rafforzamento della propria sicurezza, mentre oggi la sicurezza stessa è messa a rischio se non si affrontano rischi, se non si tenta di migliorare costantemente le proprie condizioni. Non siamo certo condannati al rischio, ma non possiamo sottrarcene più di tanto.
Nel mondo contemporaneo l’uomo si trova meno esposto ai rischi naturali – anche se non del tutto neutralizzati né neutralizzabili –, ma è molto più esposto a quelli che discendono dalle sue decisioni. È evidente che oggi si rischia di più l’incidente di macchina che la pellagra o la malaria. In compenso appaiono nuove patologie. L’uomo contemporaneo, come già quello antico, sa che non c’è mai sicurezza assoluta, ma sa anche che il non far niente non esonera affatto dai rischi. Caso mai il non prendere decisioni è quanto vi può essere di più azzardato e rischioso. In questo quadro la natura si inscrive sempre di più nelle decisioni dell’uomo e non la decisione umana nei fatti della natura. Ma questo non significa affatto – come si potrebbe credere – che l’uomo è diventato onnipotente. Se così fosse, non correrebbe più alcun rischio. Al contrario l’uomo è chiamato a giocare la propria finitezza a più livelli, diversificati e altrettanto improbabili. Per fronteggiare situazioni siffatte ci vuol ben altro che il pensiero debole. A meno che debole non voglia dire semplicemente mobile, aperto.
Della tecnica in questo secolo si è detto molto e profondamente. Per quanto mi riguarda ritengo, però, che solo un’etica del finito è all’altezza, se non di vincere, certamente di fronteggiare la puntualità e contingenza delle sfide tecnologiche. Che sono sempre determinate. La questione della tecnica non è mai un "problema generale", ma è un confronto con l’emergenza. Ed esige competenza. D’altra parte è ingenuamente naturalistico e regressivo temere l’artificio. Al contrario è l’artificialità, in ragione della sua implementazione, che mette a rischio sempre di più se stessa.
Il rischio è misura abituale della responsabilità. Ciò destina l’uomo all’assunzione sempre più consapevole della propria finitezza. All’uomo – e più generalmente alla società – tocca sempre ed ogni volta decidere. Al bivio tra le proprie possibilità e le proprie impossibilità.
Il compito degli uomini non è più quello di dirigere la storia, ma di dominare il contingente. Non si tratta più di assecondare il criptofinalismo delle tendenze, ma di eleggere, a partire dalla situazione in cui si è, fini perseguibili.

(S. NATOLI, Progresso e catastrofe, Cristian Marinotti Edizioni, Milano 1999, 243-247)

7- Il cristianesimo di un non credente
Chi crede si attende ancora il futuro da Dio, vive nel penultimo, in attesa dell’ultimo, chi non crede fa i conti con questo presente, cerca di abitarlo al meglio, di fruirne, di anticiparne le possibilità, in modo che l’improbabile non ci metta, costantemente, in crisi. Come diceva Nietzsche di Orazio: «Non carpe diem, ma appena, il giorno dopo». Ci vuole un minimo di futuro, altrimenti non è possibile condurre l’esistenza. Il confronto con la contingenza sta producendo un nuovo tipo di razionalità, che però non esclude la possibilità del credere, ma ne modifica le condizioni. Fare i conti con la contingenza vuol dire tentare di calcolare l’imponderabile. Ciò non è lontano dal mistero, e credere in Dio può essere uno dei modi di penetrarlo. Gesù Cristo come rivelazione di Dio, è anche un passaggio verso il misterioso. Da questo punto di vista, che cosa c’è di più improbabile del fatto che i morti risorgano? È la stultitia. Chi crede non può, secondo me, abolire questo paradosso. A ciò io non credo e il credente mi inquieta, per il fatto che ci crede. Dunque, o è pazzo o vive un’esperienza che mi è preclusa e che per questo mi attrae e cerco di comprendere.
Ma, indipendentemente dal credere o non credere, io vedo, scorgo il futuro del cristianesimo nella radicalizzazione dell’incarnazione. Né resurrezione, né vita eterna, ma l’ etiam pro nobis, la carità, la donazione. Parlando di Aristotele io dicevo che l’amicizia oltrepassa la giustizia, non perché la neghi, ma perché non ne ha bisogno: tutto ciò trova una radicalizzazione estrema in Gesù, dove la giustizia viene superata dalla misericordia, perché la giustizia può contenere e sanzionare il male, ma non ha di per sé la forza di sanare chi è caduto. C’è bisogno di qualcosa di più del ristabilimento di una proporzione: è necessaria l’anticipazione del dono, il perdono. Un cristianesimo di questo tipo non esige trascendenza, ma si radicalizza completamente nell’immanenza, in quel rapporto relazionale tra gli uomini secondo la formula spinoziana: «Homo homini Deus». Il Dio incarnato permette che gli uomini si trattino, reciprocamente, come déi. E che cosa vuol dire trattarsi, reciprocamente, come déi? Con il massimo di pietà e di rispetto. Questo è il tipo di cristianesimo cui io approdo, rimanendo fondamentalmente estraneo all’idea di resurrezione e, in senso lato, di trascendenza, di alterità divina, di Totalmente Altro.
Cristo diventa colui che rivela agli uomini come possono diventare dèi e, quindi, benefici e pietosi gli uni con gli altri e amorevoli, senza ritorno, cioè gratuitamente. Perché l’amore non nega la giustizia, perché senza giustizia non ci può essere amore, ma senza amore non è possibile prendere su di sé il male, senza rinfacciarlo. In questo senso, il perdono è superiore alla giustizia. Però se non ci si mette sulla strada della conversione, resta inefficace anche il perdono. Se io perdono chi ha commesso il male, per lui si apre una via, ma se lui non si trasforma, il mio perdono fallisce. L’effettività del perdono è possibile solo se l’altro comprende che deve cambiare se stesso. È poi, quello che dice Gesù: «Va’ e non peccare più».

(S. NATOLI, La mia Filosofia, Edizioni ETS, Pisa 2007, 110-112)

8 – La Pietas della comune umanità
Nella tradizione giudaica il «sacrificio espiatorio» – che era una delle forme di sacrificio – non aveva il senso d’offrire una vittima innocente in espiazione a Dio per placarne il furore, ma al contrario Dio era chiamato a fare solo da testimone alla rottura di solidarietà della comunità con il male circolante in essa. In questo caso il sacrificio non metteva in opera una giustizia punitiva, ma interrompeva una catena distruttiva. Dio è qui testimone di un atto di conversione e in questo sta l’espiazione. Gesù, vittima sacrificata, rifiuta d’essere colpevole, rivendica l’innocenza, mostra lo scandalo della violenza, ma non restituisce il male con il male. È qui il grande rovesciamento: rispondere al male con il male equivale a rimettere in circolo il male, a riprodurre le condizioni perché un nuovo capro espiatorio sia messo a morte. Dopo il servo ucciso nessuno può più essere ucciso. Così il servo apre la via all’agape.
Non basta, allora, non nuocere, anche se il non nuocere è una via regia per comprendere l’amore. La giustizia educa all’amore perché mette a freno la prevaricazione e impedisce che l’amore divenga una questione sentimentale. Perché vi sia agape è necessario instaurare rapporti di giustizia. Per questo l’amore nella sua espressione più alta prende la forma della responsabilità. In genere quando si parla di responsabilità la si ascrive al vocabolario della imputazione: ognuno è responsabile delle proprie azioni e di queste deve rispondere. Ma in questo modo si limita e s’impoverisce il significato del verbo respondeo. Noi siamo responsabili non solo di quello che facciamo ma anche di quello che non facciamo, specialmente quando evadiamo le domande dell’altro e soprattutto il suo essere una domanda. L’altro è una domanda che appella. Il male che circola nella società nasce spesso da un equivoco: ci si sente a posto perché «non si è fatto niente di male», perché non si ha alcuna responsabilità. Ma in ciò la colpa maggiore: gli uomini si danneggiano non tanto perché si fanno del male ma perché si disinteressano gli uni degli altri. E quest’atteggiamento lascia spazio a coloro che il male lo perpetrano davvero. Ma l’altro, proprio in quanto esiste, si istituisce in un rapporto di giustizia o di ingiustizia. L’altro, infatti, mi precede, è davanti a me, mi viene incontro: lo posso amare, lo posso odiare, lo posso perfino ignorare, ma anche questo è un modo di prendere posizione. Le relazioni d’esistenza sono ontologicamente relazioni di giustizia o d’ingiustizia: se sono giuste aprono la via all’amore, poiché nel momento in cui vengo incontro alle esigenze dell’altro, me ne sento responsabile, lo prendo in custodia. E lo amo.
La regola aurea dice: «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», ma il Vangelo ne fornisce una versione diversa: «Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te». La variazione pare minima, ma la differenza è abissale e non tanto per quanto attiene al rapporto degli uomini con Dio, ma per quanto riguarda il rapporto tra loro.
La regola aurea, infatti, invita gli uomini a non nuocersi, la versione positiva a soccorrersi. «Fai agli altri…», cosa vuol dire? Questo comando porta a domandarsi: cosa vorrei se fossi affamato, assetato, carcerato? Vorrei essere sfamato, dissetato, visitato e sostenuto. La versione positiva del «Fai…» assume come punto di partenza non la giustizia – il merito o il demerito di ognuno – ma il bisogno, la miseria degli uomini soprattutto quando sbagliano. Il culmine della giustizia è la misericordia, perché solo riscattando gli uomini dalla loro miseria, soccorrendoli nella loro fragilità, possiamo fare brillare sul mondo la «stella della redenzione». Ciò comporta la «conversione» dall’amor sui all’amore per gli altri, la «gratuità» poiché l’amore è sovrabbondante o non è tale. La giustizia apre all’amore, ma solo l’amore arriva dove la giustizia si ritrae, tocca l’immondo senza timore di sporcarsi e lo sana. Così l’amore diviene semente di liberazione, rende coltivabile l’utopia di una pace universale. Ora, per quale ragione un laico non potrebbe condividere tutto questo o perché tutto ciò non può essere considerato in sé un patrimonio laico? Come ho mostrato si può essere credenti, ma autonomi – e perciò sinceramente laici –; si può essere laici ed avere una pietas religiosa – quella già di Lucrezio e di Virgilio –; si può essere chierici senza essere né laici né veri credenti.
D’altra parte innanzi all’uomo spogliato e percosso dai briganti non si fermò né un sacerdote, né un levita, ma un samaritano perché «n’ebbe compassione» (Lc 10, 33). La Vulgata traduce misericordia motus est. Da dove scaturisce questo moto? È forse pietas della comune umanità. 

(S. NATOLI, Sul Male Assoluto, Morcelliana, Brescia 2006, 63-66)